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politica
348 - BREVE STORIA DEI SISTEMI ELETTORALI IN ITALIA |
VERSO LA RIFORMA ELETTORALE
L’Italia è nuovamente alle prese con il dibattito sul sistema elettorale. Un tema decisamente complesso; tanto più che, piegato dagli attori politici ai più svariati interessi di parte, viene presentato all’opinione pubblica in maniera confusa, non priva di accenti ideologici. Proviamo dunque a fare chiarezza e a sgomberare il campo dai principali equivoci. |
Innanzitutto è bene precisare l’argomento: si può allora affermare che i sistemi elettorali sono formule tramite le quali i voti espressi dai cittadini vengono tradotti in seggi; detto diversamente, sono le modalità con cui tali voti concorrono alla scelta di cariche elettive. L’Italia, come molte altre nazioni europee, è retta da una forma di governo parlamentare: semplificando al massimo, il termine designa un sistema nel quale il governo, per potere restare in carica, deve godere della fiducia del parlamento. In un simile quadro, l’elezione dei deputati è un’operazione assai delicata: non solo conduce alla scelta da parte dei cittadini dei loro rappresentanti, ma comporta la formazione, in base ai risultati usciti dalle urne, del governo del paese.
Maggioritario e proporzionale
Com’è noto si è soliti distinguere i meccanismi elettorali in due grandi famiglie: i sistemi maggioritari e i sistemi proporzionali. I sistemi maggioritari si fondano sull’idea che, detto banalmente, «chi vince prende tutto». Sono in genere imperniati su collegi uninominali, ossia ripartizioni del territorio nazionale nelle quali risulta eletto un solo rappresentante; dunque, colui che vince rappresenta l’intero collegio, compreso chi non lo ha votato. Nell’ambito dei sistemi maggioritari si usa poi distinguere fra metodi cosiddetti plurality e majority. Nel plurality il rappresentante viene eletto a maggioranza relativa: ciò significa che, per conquistare il seggio, è sufficiente anche un solo voto in più rispetto agli avversari. Il sistema uninominale a turno unico, utilizzato per esempio per la Camera dei Comuni inglese, è l’esempio classico di metodo plurality. Nel majority, viceversa, è richiesta la maggioranza assoluta (50% +1) dei voti espressi. Una tale condizione può essere soddisfatta col metodo detto del «voto alternativo», basato sull’ordine di rpeferenza, oppure tramite il meccanismo del doppio turno, a patto che il ballottaggio sia ristretto ai due candidati più votati.
I sistemi proporzionali, come suggerisce il nome, sono invece basati sul principio generale secondo cui i seggi vengono attribuiti in proporzione ai voti ottenuti; per loro stessa natura possono essere applicati solamente all’interno di circoscrizioni plurinominali, cioè ripartizioni territoriali in cui si eleggono due o più rappresentanti. La famiglia dei meccanismi proporzionali è assai eterogenea, comprendendo soluzioni anche piuttosto diverse l’una dall’altra. Ciò deriva dal fatto che ogni sistema proporzionale è caratterizzato dalla combinazione di tre elementi principali. Il primo è la dimensione delle circoscrizioni, ossia quanti seggi in palio vi sono per ognuna di esse. Tendenzialmente un basso numero di seggi avvantaggia i partiti maggiori, mentre un numero elevato fa sì che anche partiti più piccoli possano ottenere almeno un rappresentante. Il secondo elemento è la formula matematica di traduzione dei voti in seggi; alcune formule restituiscono come risultato una maggiore corrispondenza tra voti e seggi, altre sono invece meno proporzionali. Il terzo elemento è la presenza di particolari accorgimenti; tra di essi le soglie di sbarramento, cioè una percentuale minima di voti necessari per potere aver accesso alla distribuzione dei seggi.
Ripercorriamo brevemente la storia dell’Italia repubblicana dal punto di vista dei sistemi elettorali; in estrema sintesi possiamo ripartire il periodo in esame in tre fasi. Nella prima, comprendente il lasso di tempo che va dalla Costituente fino al 1993, si è applicata una formula proporzionale quasi del tutto priva di correttivi. Nel 1993 è stato introdotto un sistema elettorale misto – il cosiddetto «mattarellum» – in base al quale i tre quarti dei seggi erano assegnati col maggioritario uninominale a turno unico (plurality), mentre il restante quarto con formula proporzionale e sbarramento del 4%. Nel 2005, infine, si è adottata un’altra versione di sistema misto: un proporzionale corredato da molteplici soglie di sbarramento e premio di maggioranza; la coalizione che ha conquistato il maggior numero di voti ottiene il 54% dei seggi della Camera dei deputati (si tralascia qui, per ragioni di economia del discorso, il Senato, che è eletto su base regionale).
Tra governabilità e frammentazione
A lungo, anche nel dibattito fra gli studiosi, si è stimato che il maggioritario a un turno fosse associato a bipartitismo e governabilità, mentre i sistemi proporzionali, fornendo adeguata rappresentanza a tutte le famiglie politiche, causassero frammentazione del panorama politico e instabilità governativa. Tali convinzioni hanno un evidente difetto: esse sono sì basate su alcuni esempi concreti, ma dai quali sono state tratte delle generalizzazioni erronee o, comunque, troppo superficiali.
L’esempio del maggioritario bipartitico era chiaramente la Gran Bretagna: due soli partiti con realistiche prospettive di conquistare l’esecutivo (in realtà i partiti sono di più), alternanza, governi monopartitici stabili, elezione quasi diretta del primo ministro, facilità ad attribuire le responsabilità per l’azione di governo. Ci si era però dimenticati di alcuni fatti incontrovertibili: tanto per cominciare, il bipartitismo inglese è stato favorito da alcune condizioni particolari, che il ristretto spazio del presente articolo non consente di approfondire; inoltre, a Westminster il sistema elettorale è antecedente all’affermazione dei partiti di massa. Una volta che questi si sono affacciati sulla scena politica, la «camicia di forza» dell’uninominale ad un turno, penalizzando le terze forze, ha costretto il sistema a strutturarsi su due grandi formazioni in lotta per le cariche di governo.
Ecco spiegata la sorpresa e la delusione dei riformatori nostrani di fronte al funzionamento del meccanismo prevalentemente maggioritario introdotto nel 1993: il sistema politico italiano è divenuto bipolare ma non certo bipartitico; si sono create due grandi coalizioni, ma entrambe assai eterogenee, instabili, scarsamente coese, vittime dei veti incrociati dei partiti componenti, in grado magari di superare la prova del voto ma assai meno quella del governo; il numero dei partiti, anziché ridursi, ha visto un sostanzioso aumento nel passaggio alla cosiddetta «seconda Repubblica». Non c’è di che stupirsi: è proprio l’uninominale ad un turno applicato in un precedente contesto proporzionale multipartitico, fra l’altro in via di disfacimento, ad avere buona probabilità di produrre tali effetti. E non per chissà quali fattori culturali ma, piuttosto, perché la necessità per i vari candidati di conquistare nel proprio collegio anche solo un voto in più degli avversari (indispensabile per strappare il seggio) garantisce ai piccoli partiti, specialmente quelli situati in posizione centrale, un potere di ricatto sulle altre forze politiche del tutto sproporzionato alla reale consistenza elettorale: essendo i loro voti decisivi in un certo numero di realtà, le forze minori possono pretendere dalla coalizione di cui fanno parte un cospicuo bottino di candidature in collegi sicuri e ottenere, per questa via, un’adeguata rappresentanza nel futuro parlamento.
Va peraltro precisato che effetti del tutto simili conseguono anche dall’attuale sistema proporzionale con premio di maggioranza: la legge elettorale adottata nel 2005 non ha fatto altro che ereditare le coalizioni emerse col precedente meccanismo e ingessarle ulteriormente, dunque peggiorandone i difetti; se prima, infatti, il potere di ricatto delle formazioni minori poteva in linea teorica limitarsi ad alcuni collegi, adesso la necessità di conquistare il premio di livello nazionale ha esteso tale potere all’intero territorio del paese.
Parallelamente alla sopravvalutazione dei poteri curativi del maggioritario si è sviluppata l’accusa al proporzionale di frantumare il quadro partitico: secondo i suoi detrattori, tale meccanismo di voto causerebbe difficoltà nell’attribuire la responsabilità delle decisioni di governo. Ma questo è soltanto uno dei modi in cui può funzionare un sistema politico retto dal proporzionale, come l'Italia della prima Repubblica. La quale, però, funzionava così non tanto a causa del sistema elettorale (peraltro, lo si è visto, un proporzionale quasi «puro», ossia senza alcun correttivo), bensì perché ci si trovava in una situazione di «democrazia bloccata»: uno dei due poli era occupato dal più forte partito comunista dell'Occidente e non si ammetteva – per varie ragioni – che esso potesse accedere al governo. Il sistema partitico, dunque, era già in potenza bipolare, ma una serie di fattori di politica interna e internazionale rendeva la Democrazia cristiana il fulcro di tutti i governi.
Senza calcoli egoistici (?)
Alla luce di quanto detto sino qui, quali conclusioni si possono trarre? Senza entrare nel merito delle proposte di modifica attualmente presenti sul campo e ricordando come ogni sistema elettorale vada valutato dal punto di vista degli obiettivi che si intendono conseguire, è forse possibile avanzare alcuni suggerimenti. Se si intende mantenere salvo il principio maggioritario, è conveniente accantonare l’uninominale all’inglese, e concentrarsi invece su una qualche forma di doppio turno con ballottaggio ristretto ai due primi candidati. I vantaggi sono evidenti: ogni forza politica può misurare al primo turno il proprio seguito e poi contrattare le alleanze in vista del ballottaggio sulla base di reali rapporti di forza. Se invece si preferisce una ripartizione proporzionale dei seggi ma si vuole evitare un’eccessiva frammentazione partitica, è preferibile abbandonare definitivamente i premi di maggioranza e puntare piuttosto su correttivi quali le soglie di sbarramento o la ridotta dimensione delle circoscrizioni. Naturalmente, tutto ciò presuppone un atteggiamento delle forze politiche scevro da calcoli egoistici. Non esattamente il clima in cui si sta profilando la riforma elettorale.
Alessio Vagaggini
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