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 498 - Ucraina un anno dopo

 

Nei giorni che precedevano il primo anniversario dell’aggressione russa ha assunto un notevole valore simbolico il viaggio a Kiev del presidente Biden, che ha garantito all’Ucraina il pieno sostegno statunitense.

Gli ha fatto eco Putin con un discorso davanti al parlamento di Mosca. Per il primo. «è in gioco la libertà». Per il secondo si è in presenza di una minaccia «esistenziale» che mette in forse la sopravvivenza stessa della Russia. Su un punto concordano: non si tratta più di un conflitto regionale, ma di uno scontro tra grandi potenze o addirittura tra civiltà, destinato a segnare il futuro del mondo.

Questa narrazione sta purtroppo consentendo a Putin di accrescere il consenso interno, o almeno di circoscrivere l’area del dissenso tacito o manifesto (già ridimensionata dall’esodo di centinaia di migliaia di cittadini a elevato livello di istruzione). Se la guerra contro i cugini ucraini lasciava dubbiosi molti russi, diventa ora più convincente una mobilitazione tesa a far fronte alla coalizione a guida americana dell’intero Occidente: e sotto questo profilo la tanto ribadita compattezza della Nato e l’allineamento dell’Europa con gli Usa rischiano di produrre un effetto distorto.

A proposito di Europa, poi, diventa sempre più palese la sua inconsistenza politica. Ma soprattutto preoccupano non poco le sue prospettive future, perché è evidente che il suo baricentro continuerà a spostarsi verso Est: favorendo il venir meno dei suoi princìpi ispirativi e fondanti, il tramonto definitivo della prospettiva federalista e l’appiattimento su un atlantismo assai più rozzo e bellicoso di quello americano.

 

Diplomazia zero?

Andremo dunque avanti «senza tentennamenti», come proclama Meloni nel maldestro tentativo di oscurare le sortite “filoputiniane” del Cavaliere. Di trattative non si parla più né da parte nostra, né da parte russa o americana, né tantomeno da parte ucraina: dove a fine settembre, a scanso di equivoci, si è sancita con un decreto «l’impossibilità di intrattenere negoziati con il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin». Eppure, scommettere sul cambio di regime a Mosca appare del tutto irrealistico. Non si fa illusioni nemmeno la figlia della giornalista Anna Politkovskaja, che di Putin è stata la più coraggiosa oppositrice: dichiara di non aspettarsi la sua caduta ed è convinta che neanche una sua uscita di scena offrirebbe alternative migliori.

In un numero monografico uscito in febbraio, intitolato La guerra continua, la rivista di geopolitica Limes concludeva il proprio editoriale con una proposta: «Quanto all’Italia, potrebbe riscoprire l’arte della diplomazia, con sguardo profondo verso il Mediterraneo e l’Africa. È troppo immaginare che inviti il quartetto (Roma Parigi Berlino Madrid) a costituire un forum permanente per la pace aperto a tutti e destinato a suggerire le condizioni minime di una lunga sospensione della guerra?». Probabilmente è troppo. Non risulta che nessun nostro politico abbia raccolto, o preso in considerazione, il suggerimento.

Qualcuno invece confida che nelle ‘segrete stanze’ Washington stia operando pressioni affinché Kiev si mostri più disponibile a negoziare. Non sarà un caso che il generale Mark Milley – capo di Stato Maggiore dell’esercito americano ‒ abbia ripetutamente dichiarato di non ritenere possibile una soluzione militare. E tuttavia si continua a blaterare di ‘vittoria’.

 

Le lacune dell’informazione

Al riguardo, la partita decisiva la gioca la comunicazione. Va dato atto ai giornali e alle televisioni di avere seguito costantemente il drammatico svolgimento degli eventi; e va dato loro atto di avere documentato quotidianamente i crimini e i misfatti di cui si è reso responsabile l’occupante russo, anche ai danni dell’inerme popolazione civile. Crimini gravissimi, misfatti orrendi.

Però, come è possibile che nei nostri telegiornali non appaia mai nel Donbas un ucraino filorusso? E com’è che nessuno ci informa sugli orientamenti della popolazione della Crimea? (Intanto Tamila Tasheva, rappresentante della presidenza ucraina per la penisola, dichiara che se Kiev ne riprendesse il controllo non intenderebbe svolgervi alcun referendum). E ancora: com’è che un fatto clamoroso come il sabotaggio del gasdotto Nord Stream nelle profondità del Baltico è scomparso dall’attenzione mediatica in meno di 48 ore? E che non ha trovato il minimo risalto l’inchiesta pubblicata da Seymour Hersh – premio Pulitzer per il giornalismo – che imputa l’esplosione a un’ardita operazione di squadre di sommozzatori statunitensi?

Si ritiene a ragione che l’Ucraina sia un po’ più democratica (e meno autocratica) della Russia di Putin. Ma perché nascondere che Zelensky ha messo fuorilegge qualunque forma organizzata di opposizione? Prima della guerra erano state tacitate le tre tv filorusse, poi sono state sospese le attività di 11 partiti. Operano legalmente solo quelli governativi di sicura fede zelenskiana e la destra di Svoboda (già promotore di una formazione neonazista).

Intanto sono migliaia i procedimenti aperti per sospetto tradimento, mentre in ambito ecclesiale è partita l’operazione per mettere al bando la Chiesa ortodossa russa del patriarcato di Mosca e sequestrarne le proprietà (20 espulsi tra vescovi e sacerdoti, 129 chiese già chiuse), nonostante il clero locale abbia duramente condannato l’invasione. Nel contempo, il controllo assoluto sui media è stato affidato a un Consiglio nazionale che ha potere totale di intervento e censura.

Certo, c’è lo stato di guerra. Ma si è notato che nell’Italia del ’15-’18 il partito socialista e L’Avanti godevano di una libertà impensabile nell’Ucraina odierna, cui Von der Leyen intende «spalancare le porte dell’Unione».

 

Pace giusta?

L’obiettivo da perseguire – ha spiegato Vito Mancuso in un intervento dello scorso 16 gennaio sul quotidiano «La Stampa» – è certamente la pace, ma questa va intesa «non come mera assenza di guerra, ma come assenza di ingiustizia perché ognuno ha ricevuto il suo». E citava le parole messe in bocca da Tacito a un nemico dei romani: «dove fanno il deserto, lo chiamano pace».

Ora, sul fatto che la pax romana non fosse vera pace non si può non concordare; e in termini assoluti appare incontestabile la tesi di Mancuso quando dice che «non c’è pace senza giustizia». Attenzione, però, a non fare della “pace giusta” l’alibi perfetto (e il passepartout) per tutte le guerre: in quanto, nel concreto delle vicende umane, è ben raro che si realizzi una giustizia perfetta; e ancor più raro è che fazioni a lungo contrapposte si trovino a un tratto a concordare sui caratteri di tale giustizia. È già molto se si arriva a discutibilissimi compromessi!

Un esempio? Gli accordi di Yalta che hanno posto termine alla seconda guerra mondiale (e garantito all’Europa – sino alla guerra in Jugoslavia – quasi mezzo secolo di pace). Si trattava di una “pace giusta”? Per molti versi, nient’affatto. Era una spartizione decisa dall’alto, che segnava il destino di interi popoli. Ma sarebbe stato preferibile che gli Angloamericani e l’Armata Rossa si contendessero città per città i futuri confini, devastando l’intero continente e sterminandone le popolazioni? Grazie al cielo i firmatari di quegli accordi rinunciarono a perseguire ad ogni costo una «pace giusta». E non risulta che nel 1945 si levassero molte voci a favore di una prosecuzione del conflitto armato: tutti sapevano bene – allora – cosa significasse una guerra.

Per tornare a Mancuso, e in riferimento all’Ucraina, è assai dubbio che la soluzione migliore consista nel perpetuare la guerra sino al giorno in cui si potrà concordemente stabilire l’«assenza di ingiustizia». Più ragionevole, forse, perseguire un accordo basato sull’equilibrio delle forze e sulla consapevolezza che – anche se si scongiurasse il disastro atomico ‒ un esito ‘siriano’ produrrebbe ancor più immani (e inutili) sofferenze: moltitudini di cadaveri e di profughi, un territorio distrutto… e nessuna ‘vittoria’.

Giovanni Pagliero

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