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società
A partire dalle testimonianze dirette delle beneficiarie del progetto, si è voluto riflettere su come la città accoglie e come la città cambia nell’incontro con le donne di altre culture. A questo proposito, significativi sono stati i progetti realizzati con il Museo Egizio e i Musei Reali di Torino (Palazzo Reale e Museo d'Antichità): donne immigrate di diversa nazionalità sono diventate protagoniste della cultura cittadina, guidando i visitatori alla scoperta delle esposizioni in percorsi che ne riflettono la loro sensibilità. Vedere questi musei con i loro occhi è un cambio di prospettiva che consente di cogliere aspetti originali o dati per scontati della nostra stessa cultura. Le persone provenienti da paesi extraeuropei che negli ultimi tre decenni sono arrivate in Italia hanno scelto di stabilirsi prevalentemente nelle grandi città, per le maggiori opportunità di lavoro, anche irregolare, e di servizi che queste offrono. La migrazione femminile non fa differenza, sia per quanto riguarda donne che lasciano il loro paese in autonomia, alla ricerca di un lavoro, sia per quelle che arrivano nel nostro paese per ricongiungimento familiare, ossia generalmente per raggiungere il marito o i figli adulti che hanno raggiunto una certa stabilità economica e sociale. Sono state analizzate le riflessioni emerse nei laboratori di scambio e condivisione tenuti dal 2011 al 2021 nell’ambito del progetto Torino La Mia Città (tlmc), che hanno coinvolto in questo arco di tempo oltre 2000 donne. Il progetto ha tra i suoi principali obiettivi quello di far sentire le donne immigrate parte integrante del tessuto cittadino e di conseguenza stimolare la consapevolezza di appartenere non solo alla propria comunità di origine ma anche alla più ampia comunità locale. Le testimonianze delle partecipanti, la maggioranza di origine arabo-islamica, ma anche provenienti da paesi dell’Africa Centrale, dell’Est Europa, dell’America Latina, del Vicino e Medio Oriente, non hanno visto grandi variazioni nella percezione dei problemi e delle opportunità della città nel corso degli ultimi 10 anni. La città vista da donne immigrate Un primo aspetto che emerge in maniera significativa dalla testimonianza delle donne immigrate è la percezione della città occidentale come luogo di opportunità. Le donne di ogni provenienza geografica hanno evidenziato, fin dai primi giorni di permanenza, di essere state positivamente colpite dall’efficienza dei mezzi pubblici, dalla presenza di grandi supermercati e outlet, negozi di alimentari, anche di diverse tradizioni alimentari, e di altri generi, giardini pubblici gratuiti (in alcuni paesi di provenienza l’accesso ai parchi è infatti a pagamento). Altro aspetto essenziale del vivere in città è la presenza di scuole e ospedali, che, contrariamente a quanto accade in molti paesi extraeuropei, sono gratuiti e offrono un servizio adeguato. In particolare sono molto apprezzati dalle mamme straniere i consultori familiari e pediatrici, nonché la possibilità di vaccinare gratuitamente i bambini. Per le donne di origine nordafricana, specie quelle di provenienza sociale e culturale meno elevata, spesso legate a una visione patriarcale della società, la città medio-grande è luogo di libertà, intesa come minor controllo sociale e familiare. Questa libertà si concretizza essenzialmente nella libertà di spostamento: anche le donne meno emancipate riferiscono di avere la possibilità di spostarsi da sole, per accompagnare i bambini a scuola o per fare la spesa al mercato, mentre i mariti lavorano. L’assenza, in molti casi, della famiglia allargata, composta da suoceri e parenti del marito, consente loro questi margini di autonomia che tutte dichiarano di apprezzare: poter fare una passeggiata da sole è un momento solo per sé che, soprattutto se provenienti da alcune zone rurali, difficilmente si sarebbero potute concedere nel paese di origine. Alcune donne riferiscono che vivere lontano dalla famiglia d’origine comporta maggior libertà anche nell’educazione dei figli e delle figlie, compito che presenta un grado di complessità maggiore per la necessità di dover mediare tra la cultura del proprio paese e quella occidentale, più facilmente assimilata dalle “seconde generazioni” attraverso la scuola e le amicizie. Certo non tutte le donne, almeno quelle di recente immigrazione e all’inizio del proprio percorso di integrazione, sono disposte a riconoscere che questa opportunità è data dal complessivo maggior grado di libertà della società occidentale: non sono mancate le critiche all’abbigliamento, giudicato troppo succinto, di alcune donne, e il piccolo scandalo alla vista di coppiette che si baciano per la strada! Alcune di loro, d’altro canto, dichiarano addirittura di non voler più tornare nel paese di origine, per non perdere questa libertà che si realizza essenzialmente nell’assenza di giudizio (o meglio, nell’assenza di conseguenze derivanti dal giudizio che comunque percepiscono) sui loro comportamenti pubblici. Quello che emerge nel complesso dalle testimonianze delle signore straniere è l’autopercezione di “essere periferia”: la loro vita si svolge nel quartiere di abitazione a forte immigrazione, spesso situato ai confini della città, un microcosmo che riproduce la realtà dei loro paesi di provenienza, per cui si sentono più a loro agio a non varcarne i confini: una tendenza alla chiusura, anche in senso geografico, nella propria comunità. Una città multiculturale: solidarietà e solitudini Se la città cambia vita e abitudini di chi viene ad abitarla provenendo da un altro contesto socio-culturale, vale anche l’inverso: la città cambia il suo aspetto con i suoi abitanti provenienti da Africa, Asia, America del Sud, rendendo Torino multiculturale. Secondo le impressioni delle donne che hanno partecipato nel corso degli anni al percorso di Tlmc, questa diversità provoca reazioni diverse nella comunità ospitante che vanno dalla solidarietà, alla tolleranza o all’indifferenza fino al razzismo. Le donne arrivate da poco in Italia riferiscono di sentirsi sole e spaesate: la difficoltà maggiore risiede nella mancata conoscenza della lingua italiana, che è il primo e principale ostacolo a comunicare e a instaurare rapporti con le altre persone, soprattutto italiane, ma anche di altra origine, la cui unica lingua veicolare è appunto l’italiano. Questa è la ragione che porta soprattutto le mamme che non lavorano a chiudersi nel piccolo gruppo dei propri connazionali e di fatto a vivere una vita staccata dalla società intorno a loro. Per questo, uno dei principali strumenti di integrazione attivati dal progetto Tlmc in collaborazione con i Cpia (Centro Provinciale Istruzione Adulti) è proprio l’insegnamento della lingua italiana, primo mezzo di comprensione della nuova realtà che si trovano ad abitare. Superata almeno in parte la barriera della lingua, le donne immigrate raccontano di episodi di solidarietà e gentilezza tra vicini di casa, in particolare da parte di donne italiane anziane e sole, che adottano come nonne i loro figli piccoli, preparano torte e volentieri scambiano due chiacchiere davanti a un caffè. Questo aspetto socio-abitativo (anziani che vivono da soli invece che con le famiglie dei figli adulti) incuriosisce alcune delle donne straniere, abituate a contesti di famiglia allargata. La città, spesso vista come spersonalizzante, riesce a far incontrare due solitudini. Il tema della solitudine è molto presente: le donne riferiscono che il primo gruppo di amiche che sono riuscite a trovare appena arrivate in Italia è stato proprio il gruppo di Tlmc! Purtroppo, accanto a buone pratiche, non mancano situazioni di più o meno palese razzismo: le donne straniere lamentano discriminazioni nella vita quotidiana, ad esempio nella scuola da parte di alcuni insegnanti e genitori italiani oppure nella difficoltà a trovare una casa in affitto, pur nella disponibilità economica di pagare regolarmente il canone. Uno dei più eclatanti e recenti episodi di razzismo riportati dalla cronaca torinese («Repubblica» 21 marzo 2019) ha colpito delle giovani donne musulmane, studentesse peraltro ben integrate nella società torinese: su un bus pubblico, tre giovani marocchine sono state minacciate e aggredite con calci e pugni da una signora, semplicemente indispettita dalla loro presenza. La donna ha strappato ad una delle ragazze il velo dalla testa, con chiaro intento denigratorio della religione islamica, ma con la difesa e solidarietà da parte degli altri passeggeri del bus e del conducente che ha immediatamente chiamato la polizia. Questo episodio è emblematico della relazione complessa che la cittadinanza ha verso la popolazione straniera, soprattutto femminile, e conseguentemente della percezione che le donne straniere hanno del proprio vissuto cittadino. La questione di genere, infatti, si intreccia con la questione migratoria. Solo per fare un esempio, sempre nel contesto dei mezzi pubblici, le cittadine straniere riferiscono che soprattutto gli anziani si lamentano dell’ingombro dei passeggini per i bambini piccoli, che ostacolerebbero il passaggio e occuperebbero troppo spazio. Questo tipo di commenti è però esperienza comune di tutte mamme, indipendentemente dalla nazionalità; quindi non sempre è facile separare i problemi legati al genere da quelli legati alla nazionalità. Le donne cantano la città che cambia Lo stesso vale per i giudizi denigratori relativi all’abbigliamento e al velo, in quanto i commenti negativi sono rivolti in egual misura sia alle donne che indossano abiti lunghi e velo che copre la testa e il collo (specialmente donne di religione islamica), sia a quelle che si vestono con colori sgargianti, parrucche e abiti succinti. Il giudizio sul corpo della donna, su come e quanto deve essere coperto o scoperto è infatti trasversale all’origine della stessa. Attraverso gli abiti delle donne, il paesaggio urbano si arricchisce di diversi colori e fogge: le donne conservano e spesso accentuano l’abbigliamento tradizionale, che evidenzia ancora di più la sua valenza di simbolo identitario, rafforzando il legame con il lontano paese d’origine e la locale comunità di appartenenza. La presenza pubblica femminile di origine straniera si fa sempre più evidente a Torino, per le strade, nei mercati, negli eventi interreligiosi, nelle manifestazioni pubbliche, nelle scuole, come mamme di tanti alunni e alunne e come studentesse anche universitarie. Le donne immigrate iniziano a produrre cultura propria, che varca la propria comunità di origine. È il caso di Epoque (vero nome Janine Tshela Nzua), giovane rapper di origini congolesi, torinese di adozione, con esperienze culturali tra Parigi e Bruxelles. La sua canzone Boss (Io&te), con video girato a Torino ‒ in un misto di italiano, francese e lingala, una modalità con cui le persone immigrate si esprimono nella quotidianità ‒ parla delle difficoltà di una famiglia immigrata, nella quale la sorella maggiore si trova a dover prendersi cura e mantenere il fratellino con il proprio lavoro in nero. E così canta della speranza di lasciare la “periferia” o meglio della possibilità di realizzarsi. Le donne immigrate cambiano l’aspetto della città e ne cambiano la narrazione: non disperdere e accogliere questa ricchezza è la sfida di oggi. Maria Adele Valperga Roggero e Sara Milano
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