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 340 - SUL DISCORSO DI NAPOLITANO

a

LE FOIBE, LA MEMORIA, IL DOLORE

Il discorso di Napolitano sulle foibe ha innescato una piccola crisi diplomatica tra Croazia e Italia, il presidente croato Mesic non lo ha gradito infatti, puntando l’indice sulle precedenti colpe fasciste, sulla presenza di partigiani anche non croati, e richiamando il trattato di pace di Osimo fra Italia e Jugoslavia ha sostenuto che i patti vanni rispettati.

Anche in Italia c’è chi ha sollevato perplessità sulle parole di Napolitano, sostenendo che occorre contestualizzare i fatti storici e considerarli nella loro complessità; non si dovrebbero quindi ricordare le foibe senza fare menzione del tentativo di pulizia etnica fascista che le ha precedute.

La ricerca storica può certo fiorire unicamente sulla complessità, sulla capacità, supportata dalla ricerca documentale, di guardare una medaglia da entrambi i suoi versi. Non c’è dubbio, occorre saper contestualizzare tutto, dalle responsabilità dei vincitori che dopo la prima guerra mondiale hanno reso la Germania terreno fertile per la nascita di un Hitler agli errori di Allende che hanno contribuito all’ingiusto colpo di stato contro di lui. Non di rado prevale una sorta di riflesso ideologico che induce a serbare un occhio di riguardo alla parte per la quale si simpatizza, ad attenuarne le responsabilità riportando la violenza di cui si è resa colpevole sotto la categoria della “reazione”. Esiste una pericolosa scorciatoia, nella cui elementare suggestione talvolta è facile perdersi, che conduce a proiettare in alcune forze l’origine esclusiva della violenza e a considerare la violenza restante alla stregua di una risposta, pur discutibile, a quella prioritaria aggressione. Il fascismo, il nazismo e il comunismo prima, l’imperialismo americano o il terrorismo islamico dopo corrispondono ad alcuni esempi prediletti da questa soluzione monistica. Sono diverse le motivazioni ovviamente e sono differenti i contesti, ma analogo è il meccanismo: esiste qualcuno che inizia e qualcuno che risponde, due piani differenti nei quali incasellare responsabilità non assimilabili. Se si sottolinea il pericolo di questa tentazione riduzionista, non lo si fa evidentemente per assolvere fenomeni politici come il nazismo e il fascismo dalle loro colpe immense, ma per indicare che occorrerebbe sempre percorrere la via della non linearità, in base alla quale la colpa è spesso diffusa e le distinzioni nette nel campo della violenza politica si rivelano in genere meno adeguate della ricerca delle sfumature e degli sconfinamenti.

 

Contestualizzazione e ricordo del dolore

Tornando alle foibe, certo bisogna mettere in gioco i crimini fascisti che le hanno precedute, ma oltre al fatto che questo non può costituire una giustificazione soddisfacente per i crimini successivi, bisogna anche fare attenzione a ritenere le foibe soltanto ed esclusivamente una “reazione” e una risposta a un’oppressione precedente: il nazionalismo degli slavi di quelle terre, ad esempio, è stato sì alimentato dal dominio fascista, sarebbe però riduttivo considerarlo radicato unicamente in questo. Ma il punto che riguarda il discorso di Napolitano in realtà è un altro. Chi al bisogno di memoria avvertito dal presidente italiano ha risposto che occorre contestualizzare, che la verità storica è complessa e la tragedia istriana non può essere isolata, quasi che gli infoibatori fossero una manifestazione del male piovuta dal nulla, ha espresso certo affermazioni condivisibili (e ancor più giusto è sottolineare la strumentalizzazione politica che qualcuno fa di quegli orrori), ma sembra non aver colto nella sua elementare essenzialità l’esigenza che anima quel discorso: il ricordo del dolore. Il gesto guida di Napolitano non sta nel sollevare un dito per indicare delle responsabilità, ma in uno sguardo ripiegato verso il passato a testimonianza della sofferenza. Si trova, è vero, una menzione al «parossismo nazionalista», a un «disegno di sradicamento» e a «un disegno annessionistico slavo», ma la condanna dei nazionalismi è simmetrica – sia «quello espressosi nella guerra fascista» sia «quello espressosi nell'ondata di terrore jugoslavo in Venezia Giulia». Se Napolitano muove un’accusa non la muove alla Croazia, ma a noi italiani, a se stesso, alla leggerezza con la quale si è rimossa una tragedia che riguardava tutta la nazione e che è stata lasciata sulle spalle dei soli profughi, all’aver preferito soprassedere «per pregiudiziali ideologiche e cecità politica». È questa rimozione nazionale a essere chiamata in causa, posta a questione sulla quale meditare. Nel celebrare il Giorno del Ricordo Napolitano non ha voluto che richiamare alla memoria un orrore che qui da noi, per lunghi anni, è stato oggetto di una dimenticanza esemplare, se si fa scivolare in secondo piano questa urgenza del ricordo per entrare nel rimpallo delle responsabilità, come ha fatto il presidente Mesic, si finisce per esporsi a un equivoco.

Sono ovviamente benvenuti tutti gli approfondimenti storici che consentano di redigere una mappa più precisa dei tragici avvenimenti di quelle terre, ma lo sono davvero solo se indirizzati a questo bisogno di testimonianza del dolore, lo saranno meno se non si riveleranno capaci di uscire da un semplice contenzioso sulle colpe, da una polemica esclusivamente politica. Al centro deve stare la grazia della memoria, perché il sangue dei morti grida dagli abissi della storia: è un grido che si rivolge a chiunque, senza peso solo per chi si ostina a non ascoltare, spetta ai vivi concedere loro l’unico conforto ancora possibile, quello di non respingerli nell’oblio.

Massimiliano Fortuna

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