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storia
459 - 27 gennaio: «la rete delle due religioni» e una tipografia ad Assisi |
La bici di Bartali contro la barbarie
Tra l’autunno del 1943 e la tarda estate del 1944 nelle regioni del centro Italia, con diramazioni in Lombardia, Piemonte e Liguria, operò una vasta rete di attività allo scopo di salvare gli ebrei dalla deportazione. |
L’emarginazione degli ebrei italiani era iniziata con le leggi razziali del 1938, e per certi versi anche prima. La burocrazia fascista aveva accuratamente schedato gli appartenenti alle varie comunità ebraiche, per cui dopo l’8 settembre ’43 e la creazione della Repubblica di Salò a nord della linea Gustav, gli occupanti tedeschi, aiutati da “volonterosi carnefici” italiani, ebbero il loro compito molto facilitato. Si trattava quindi di nascondere gli ebrei in luoghi “sicuri” in attesa dell’avanzata degli Alleati oppure di favorire la loro fuga con documenti falsi.
Un ruolo essenziale svolse in queste circostanze la Delegazione per l’assistenza degli emigranti (Delasem). Essa era stata creata nel 1939, per iniziativa dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, da tre personalità molto diverse, ma unite dal fatto di essere perseguitate perché ebree: l’ex-prefetto Dante Almansi, rimosso dalla carica per effetto delle leggi del 1938, l’avvocato genovese Lelio Vittorio Valobra, vicepresidente Ucei, e Raffaele Cantoni, militante antifascista e in seguito partigiano, in contatto con gli Alleati. In stretto rapporto con Delasem lavorano anche alcuni esponenti della chiesa italiana, sì da formare quella che è stata definita quasi una “rete delle due religioni”. In Liguria è attivo il rabbino maggiore di Genova, Riccardo Pacifici, tra i primi catturati dell’organizzazione; deportato ad Auschwitz, morirà, con la moglie nel dicembre 1943. In Toscana il fulcro del lavoro è Giorgio Nissim a Lucca, Pisa e Livorno, e a Firenze il rabbino Nathan Cassuto, che collabora con il cardinale Elia Dalla Costa per nascondere molti ebrei nei conventi della regione. Le riunioni di Delasem si svolgono spesso presso le sedi dell’Azione cattolica o nelle sacrestie. Nonostante la prudenza, i delatori sono al lavoro. Cassuto è arrestato il 26 novembre 1943 insieme alla moglie Anna di Gioacchino e a un amico, Saul Campagnano. Tre giorni dopo è catturato anche Raffaele Cantone. Campagnano muore ad Auschwitz nel ’44, Cassuto a Gross-Rosen nel febbraio ’45 poco prima della liberazione del campo. Sua moglie Anna, internata a Terezin, si salverà e nel dopoguerra emigrerà in Israele. Con una rocambolesca fuga dal treno, anche Cantone riesce a salvarsi, a riparare in Svizzera e a riprendere la sua collaborazione con Delasem.
Dal punto di vista dei luoghi un’importanza speciale assume Assisi, con molti conventi che ben si prestano all’accoglienza, lontana dai bombardamenti in quanto località non strategica e sede di una tipografia, quella di Luigi e Trento Brizi, padre e figlio, convinti antifascisti e capaci di imitare perfettamente i documenti d’identità. Oltre a Firenze anche Genova, sede da sempre di un’importante comunità ebraica e città portuale, ha un ruolo strategico. Qui arrivano fondi dalla Svizzera per aiutare la fuga, da qui partono persone munite di documenti con cognomi “arianizzati” e qui svolge la sua azione una figura forse dimenticata, il console di Svezia Elow Kihlgren. In accordo con Massimo Teglio, con monsignor Repetto e con il nunzio apostolico a Berna Filippo Bernardini, riesce con falsi visti a far imbarcare per mete sicure parecchi ebrei. Scoperto, arrestato e torturato dalla Gestapo, è espulso dall’Italia nel 1944. A Firenze e ad Assisi agiscono invece, con particolare efficacia Don Leto Casini, don Aldo Brunacci e padre Rufino Niccacci. È bene che questi nomi siano tenuti a mente dato che sono tutti incisi sul Muro dei Giusti di Yad Vashem.
Una figura del tutto particolare è infine quella del padre cappuccino francese Pierre-Marie Benoit (al secolo Pierre Péteul), filosofo e biblista. Già nei primi anni di guerra, a Marsiglia, sfuggendo all’occhiuta vigilanza del governo di Vichy e dei tedeschi, aveva favorito la fuga degli ebrei verso la Svizzera o quanto meno verso la zona d’occupazione italiana a Nizza, fornendo loro passaporti falsi. Giunge in Italia nel luglio del 1943, pochi giorni prima della caduta di Mussolini. Vuol illustrare in Vaticano i suoi progetti per salvare gli ebrei. Ma gli eventi precipitano, padre Benoit resta in Italia, arresti e deportazioni indeboliscono gravemente la comunità ebraica, siamo alla vigilia della terribile retata del ghetto di Roma (1024 deportati, di cui 207 bambini, 16 sopravvissuti) rievocata con rara efficacia da Anna Foa il 6 gennaio scorso a «Uomini e profeti», Radio3. Père Benoit, divenuto ormai p. Maria Benedetto e soprannominato «il prete degli ebrei» si impegna senza risparmio nella difesa dei perseguitati e diventa addirittura uno dei responsabili della sezione romana di Delasem.
Gino, il Giusto
Ma torniamo in Toscana e Umbria e a un problema molto pratico. Come far avere alla tipografia Brizi ad Assisi le foto per i documenti falsi e come riportarli a Firenze. 340 chilometri tra andata e ritorno, zeppi di pericoli e di posti di blocco? Rischio di morte o di deportazione per chi fosse stato scoperto. Non si sa chi abbia avuto l’idea, certo è un colpo di genio. Il cardinale Dalla Costa chiama Gino Bartali di cui è amico e gli propone di fare il corriere. Può nascondere i documenti nel telaio della bicicletta. È un campione affermato, conosciuto in tutta Europa, ha già vinto due Giri e un Tour. La guerra gli sta rovinando la carriera, rubandogli gli anni in cui un ciclista è più forte e completo, ha comunque bisogno di continui allenamenti per mantenersi “in forma”. Viaggerà con la miglior bici (tenuto conto dei tempi) e con una maglia con su scritto il suo nome. Chi mai avrà il coraggio di fermarlo e perquisirlo? Gino ci pensa su una notte e poi accetta. Senza dir nulla a nessuno, neppure a sua moglie. E non dirà nulla per il resto della sua vita. Decine di “allenamenti” tra Firenze e Assisi (170 km), qualche puntata a Genova (230 km), con sosta a Lucca, presso il convento di don Arturo Paoli per altre consegne. Oppure alla Certosa di Farneta, di cui il padre domenicano Antonio Costa, amico di Bartali, è amministratore. Ai primi di settembre del 1944 mentre Firenze è già liberata, Lucca resta al di là del fronte. Su segnalazione di un delatore, un reparto di SS irrompe nel convento e cattura 12 religiosi (tra cui lo svizzero Martin Binz, priore, e il francese Adrien Compagnon) e 32 ebrei ivi nascosti. Saranno tutti fucilati nei giorni seguenti. La stessa sorte tocca a padre Costa, dopo essere stato torturato.
Bartali era malvisto dal regime fascista, che puntava sui successi sportivi per aumentare il consenso e la popolarità. A differenza di altri e resistendo a pressanti inviti non aveva mai voluto la tessera del partito. La stampa minimizzava le sue vittorie e gli attribuiva la colpa delle sconfitte, come la storica débacle ai campionati del mondo in Olanda il 5 settembre 1938. Nel 1939 il suo programma prevede la Milano-Sanremo, che vince; il Giro in cui arriverà secondo dietro Valetti e il Tour a cui non potrà partecipare. Le squadre nazionali italiana e tedesca non saranno all’ultimo Tour prima del conflitto, per evidenti motivi politici. Nel ’40 si svolge l’ultimo Giro anteguerra. Vincerà Coppi, gregario di Bartali nella “mitica” Legnano, e suo delfino sulle strade d’Europa. Il Giro quell’anno si conclude il 9 giugno. Il giorno successivo Mussolini da Palazzo Venezia annuncerà «l’ora delle decisioni irrevocabili». L’Italia aggredisce Francia e Gran Bretagna. L’ambasciatore francese dichiara: «È una pugnalata alla schiena», espressione ripresa dal presidente americano F. D. Roosevelt e passata alla storia. Bartali dirà in quei giorni: «Per un cattolico come me, l’idea stessa di guerra è una bestialità». Pagata cara. Il 28 giugno muore il fratello della sua fidanzata nell’affondamento della nave Paganini che trasporta militari in Albania.
Estraggo queste note dal libro di Alberto Toscano, già presidente dei giornalisti stranieri a Parigi, che ha ricostruito con cura e passione l’intera vita di Gino Bartali Un vèlo contre la barbarie nazie (Armand Colin 2018, ora tradotto da Baldini+Castoldi in italiano: Gino Bartali. Una bici contro il fascismo, e presentato il 25 gennaio scorso al Circolo della Stampa di Torino, in anteprima nazionale). Sulla copertina rosso vivo l’impronta sottile di un pneumatico che schiaccia e cancella una svastica. Nella prefazione, Marek Halter, ebreo polacco, naturalizzato francese e sopravvissuto alla Shoah scrive: «Il mio amico Alberto Toscano si è appassionato alle vicende degli atleti che si opposero al fascismo. Per esempio a Jesse Owens che sfidò Hitler vincendo a Berlino. O a Gino Bartali che, agendo da vero credente e vero sportivo, prese alla lettera il principio cristiano: “Bussate e vi sarà aperto”. Gino il pio utilizzò la sua bicicletta e la sua popolarità per recapitare molti falsi documenti contribuendo così a salvare la vita a circa 800 ebrei italiani».
Soltanto dopo la morte, il 5 maggio del 2000, a opera del figlio maggiore Andrea, emerge con chiarezza l’attività di Gino Bartali durante la guerra. Nell’aprile 2006 il presidente Ciampi consegna alla vedova Adriana la medaglia d’oro al valor civile e nel 2013 gli esperti ammettono il campione toscano tra i Giusti, cioè tra coloro che «in ogni parte del mondo hanno rischiato la vita per aiutare gli ebrei durante la persecuzione nazista» (Moshe Bejski, per molto tempo presidente della commissione di Yad Vashem).
C’è stato qualcuno che, come spesso accade, anche in questo caso ha voluto fare opera di riduzionismo o addirittura di negazionismo. La risposta sta in una frase dello stesso Bartali, riportata dal figlio Andrea nel libro Gino Bartali, mio papà: «Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come eroe di guerra… Mi sono limitato a fare ciò che sapevo meglio fare. Andare in bicicletta. Il bene va fatto ma non bisogna dirlo…». In un periodo in cui sembrano tornare gli spettri del passato e in cui persino Jorge Mario Bergoglio dichiara di sentire nell’attuale temperie un’eco dei tragici anni Trenta, sembra opportuno ricordare fatti e persone che altrimenti rischiano la polvere di un colpevole oblio.
Pier Luigi Quaregna
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