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 481 - La via percorsa da Aldo Bodrato / 1

 

La natura narrativa della parola di fede

«Il racconto ha generato l’ebraismo e il cristianesimo: ha insegnato a fare domande e le domande hanno generato altri racconti.

Ma poi, morto l’ultimo evangelista o anche prima, è arrivata la teologia (per carità! sia la benvenuta…) e allora, come constata Harald Weinrich (Concilium, maggio 1973, pp. 72-73), al corpus di racconti che costituiscono la Scrittura si è sostituito un corpus di argomentazioni concettuali. […] Le domande hanno trovato risposta non più nei racconti, ma nei catechismi. Era ora che qualcuno iniziasse la risalita, che restituisse vita alle ossa secche, riso e pianto alla buona novella»: con queste parole Paolo De Benedetti introduce la seconda raccolta di racconti di Aldo Bodrato, Storie mancine (Diabasis, 2000). Ed è su questa «risalita» alla vitalità del racconto che qui vogliamo sostare per recuperare il valore degli scritti di questo autore torinese, pochissimo noto al mondo teologico a dispetto della produzione copiosa di scritti dal tratto affatto originale.

 

Nel dibattito degli anni ’80

Come ricorda De Benedetti, il dibattito sulla via narrativa si apre negli anni Settanta muovendo dalla constatazione della crisi del linguaggio religioso (a cui era dedicato quel numero di Concilium), che da allora non ha mai smesso di interrogare la speculazione teologica. È infatti proprio dal titolo del saggio di Weinrich che tale istanza assume il nome di «teologia narrativa». Mentre apre una nuova strada tutta in salita, quella prima intuizione si propone l’importante obiettivo di ripensare al concetto di verità del racconto di finzione, delle parabole, del romanzo: «In colui che ascolta un racconto inventato esso può suscitare, proprio come in chi ascolta una storia effettivamente accaduta, quel lavoro di imitazione e di ripetizione che s’impone a coloro che vogliono agire e comportarsi in conformità alla storia narrata» (p. 78).

Aldo Bodrato affronta la sfida narrativa a partire dai primi anni Ottanta, con la pubblicazione de Le opere della notte (1985) e il saggio «Il narrare come problema teologico» (Humanitas, 4 1984), in cui dà conto dei diversi interventi che in quegli anni si muovevano verso tale riscoperta. Come anche Bodrato mette in evidenza, tratto comune di tutti coloro che, a diverso titolo, sono intervenuti a sostenerne la tesi è la constatazione di un abbaglio: come è stato possibile per la teologia eludere tanto a lungo la forma letteraria, poetica e narrativa, della rivelazione; la presenza di immagini e simboli di un linguaggio metaforico con cui si dà il discorso su Dio; il carattere narrativo della trasmissione della fede, che solo consente l’accesso agli eventi originari a chi vi si accosta per la prima volta? La questione sfiora il tono apologetico, che a volte è esplicitamente messo a tema, come nel saggio di J. B. Metz «Breve apologia del narrare» (Concilium, maggio 1973); mentre in talaltre sembra assumere un tono sdegnato: «Che molte narrazioni di Genesi, Giudici, Samuele e Re, molti oracoli dei profeti, il Cantico e Giobbe siano letteratura, non lo nega nessuno; che debbano essere studiati come letteratura pochi lo accettano. Perché?» (L. A. Schökel, Problemi ermeneutici di uno studio letterario della Bibbia, 1986).

La riflessione teologica di Bodrato si inserisce quindi all’interno di un dibattito già vivace, al quale egli prende parte senza sposare una tesi contro l’altra. Il suo contributo va pertanto riconosciuto nel duplice tracciato, narrativo e argomentativo. Da sola la produzione di racconti non può infatti dar conto della sua figura, che dovremo osservare su entrambi i fronti. E tuttavia non sarà facile delineare il profilo di un autore che affronta con grande competenza temi teologici senza aver conseguito un titolo istituzionale (si è laureato in filosofia, con una tesi sul pensiero filosofico e teologico di Giovanni Scoto Eriugena), diventando voce argutamente critica della Chiesa di cui si sentirà sempre membro vivo e partecipe.

 

Una Chiesa in fermento

Se Bodrato sia arrivato alla teologia narrativa per intuizione personale o per suggestione dell’epoca non è facile da comprendere. La storia personale e gli scritti intrecciano a tal punto le vicende teologico-ecclesiali del suo tempo che leggerlo ci aiuta a ripercorrere e rivivere i decenni che ci separano dagli anni del post-Concilio, con cui si inaugura la sua esperienza di vita cristiana attiva in una Chiesa in fermento, che oggi è possibile intuire solo con molta immaginazione. È frutto di quel periodo il testo Quale Dio? quale uomo? (Borla, 1980), ove troviamo raccolti articoli pubblicati attorno al tema che dà il titolo a questo primo libro, una ricerca sui temi della fede nella quale si respira l’aria degli anni Settanta. Seppur ancora pregno di quella vivacità e fecondità, è tuttavia già presente la delusione: «Sembra finito il tempo eroico della grande contestazione della chiesa. Uno alla volta i gruppi dei cristiani critici si sfaldano e lasciano liberi i propri membri di scegliere la via che sembra loro più conseguente» (p. 41). Non per questo risulta meno forte il senso di ribellione verso le inadeguatezze della Chiesa e di quel cristianesimo «idolatrico» di fronte al quale – sulla scia di D. Bonhoeffer - «è bene definirsi atei»: «Riconoscersi atei è diventata un’esigenza di onestà intellettuale ed un esercizio di ascesi, ma anche un gesto di disponibilità a porre in modo nuovo la questione del trascendente, a porla a partire dalla nuova coscienza della propria nuda e fragile responsabilità umana» (p. 147).

Aiuta un po’ la nostra comprensione leggere qualche passaggio di autopresentazione: «Mi sono interessato più di studi teologici che filosofici, benché sia laico e laureato in filosofia, perché la teologia ha oggi un contesto comunitario e una valenza politica che la filosofia non ha; ma ritengo che la teologia sia cosa morta se perde quella capacità di ricerca soggettiva e di sfacciataggine critica che la filosofia ha conservato» (Quale Dio? p. 248). Quella di Aldo Bodrato è una parola libera, talvolta sferzante, ma tale perché appassionata. Il suo stile è eversivo in quanto eversivo è lo stesso vangelo, specie se letto alla luce della teologia della liberazione. Ma nella sua parrhesia, egli non si sottrae alle accuse che in quegli anni vedono un certo impegno cristiano tutto rivolto all’immanenza, ovvero al sociale. Con forza ricusa quindi l’obiezione che vorrebbe separare Dio dall’altro, specie dal povero, da colui che soffre e da tutti coloro che sono compresi nelle categorie del Magnificat: «Non vi è forse una preghiera che nasce dalla lotta per la giustizia e la liberazione? È questa una preghiera che resta all’interno dell’immanenza, che non sale oltre le nuvole a Dio, perché chiede pane per gli affamati e pace per gli oppressi, perché non è accompagnata dal silenzio dei chiostri e delle chiese, ma è inframmezzata dal chiasso delle polemiche?» (p. 36). È invece causa della crisi della chiesa proprio la sua compromissione con il potere e l’ingiustizia, che le avrebbe fatto perdere la bussola evangelica (p. 115).

 

Dio dinamite, non oppio

Ma assieme alle critiche ad intra, Bodrato è pure interessato a rispondere alla denuncia della fede cristiana proveniente dal mondo extra ecclesiale, nel quale – ancora sotto l’egida dell’ideologia marxista ‒ viene vista come credenza alienante e proiezione di desideri inconfessati. Attraverso una lettura biblica, l’autore dimostra come il problema sia mal posto, in quanto non sussiste nei termini indicati di fede nell’esistenza di Dio e andrebbe al contrario posto come scelta del Dio in cui credere (p. 93, p. 167). Un Dio che nel testo sacro resta sempre inafferrabile, diverso a seconda delle tradizioni teologiche, un divino in concorrenza con le false forme di religiosità combattute dai profeti e che infine rimanda al superamento di sé: Dio è «dinamite se vogliamo, non oppio» (p. 168). Di conseguenza l’uomo di fede non può che essere in perenne lotta «contro ogni organizzazione statica e oppressiva del mondo, contro ogni interpretazione religiosa che faccia di Dio il garante dell’ordine ingiusto e mascheri, in qualche modo, l’assurdità del male» (p. 168).

Il lavoro di Bodrato si comprende allora alla luce di una fede vissuta come impegno politico e sociale, ma prima ancora nell’introspezione personale. «La fede è, al limite, incompatibile con la santità. È cosa da peccatori» (p. 130), ma qualcosa per cui spendere la propria vita, che insegna ad autodecentrarsi, a liberarsi dalla schiavitù di se stessi, ad assumere la responsabilità per l’altro. E se il Dio liberatore è l’uomo torturato, «la possibilità contenuta nell’uomo di soffrire senza colpa, di sacrificare se stesso per gli altri, di vivere la sua umanità come dono gratuito» (p. 173) diventano veri luoghi teologici.

Bodrato assumerà il compito della teologia narrativa immediatamente dopo questa prima pubblicazione, in cui già emergono i prodromi nella sua passione del narrare (incipit di da Emmaus a Gerico) e l’individuazione del tratto poetico e narrativo dell’annuncio (apologia del narrare): «Il cristiano si rende conto oggi, in una situazione di progressiva scristianizzazione sociale e culturale, che l’evangelizzazione non è fatta di argomentazioni razionali e neppure di pressanti appelli all’ordine morale ed all’istinto religioso. L’evangelizzazione, come annuncio della ‘buona novella’, è narrazione e racconto, è proposta di una storia divino-umana, capace di toccare il cuore dell’uomo nei suoi nodi di drammatica contraddizione vitale» (p. 229-30).

Maria Nisii

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