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 496 - UN CONVEGNO SUL POST-TEISMO / 2

 

Facciamo una civiltà dell’ascolto

 

Conosciamo Dio nella relazione, non nell’essenza. Se è da intendere alla lettera che «noi siamo soli», come ho sentito qui, Dio non c’è per noi, né in una immagine né nell’altra, tanto meno con una presenza. Non ci sarebbe nulla da cui andare “post”.

Dio sarebbe un’idea regolativa, un’immagine mentale, mutevole come ci piace, appunto non una persona, non una realtà. Allora il post-teismo così inteso sarebbe una forma gentile, non aggressiva, non apodittica, di a-teismo: «siamo soli».

Proviamo ad ascoltare;  facciamo una civiltà dell’ascolto. Facciamo prima il silenzio che sgombra la mente dai rumori, ma poi esercitiamo l’ascolto: ascolto reciproco, e ascolto universale. La Bibbia è una richiesta di ascolto: «shemà Israel» (Deuteronomio 4). Ogni altro suggerimento di significato è una richiesta di ascolto.

I poeti ascoltano. Capiscono e dicono ciò che ascoltano. Solo i distratti, occupatissimi da troppe cose, non ascoltano, non sono poeti. Anche chi ha già definito tutto, non ascolta. Qualcuno attento ad ascoltare, si accorge, in qualche esperienza, che altri ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Esodo 3, 7-10). Osserva, ascolta, conosce. Si rivela agli schiavi uno che sa vedere, ascoltare, conoscere. Ci accorgiamo che possiamo essere in una storia di liberazione.

Ci arrivano storie lontane nelle quali riconosciamo i nostri sentimenti. Qualcuno palpitava come me. Certo, uomini e donne come noi. Ma non solo. Trovo  possibilità di vita che sono nascoste in me, che ho dimenticato, qui c’è un vento che le risveglia.  Qualcuno ha i nostri sentimenti: forse li abbiamo noi appresi da lui, quando eravamo senza sentimenti?

 

Senza confini

Questo programma di ricerca dice anche “Oltre le religioni”.  Perché abbiamo bisogno di scappare? Ci fanno tanto male? A me ha fatto molto più male la politica-guerra, l’antropologia machiavellica-hobbesiana, l’uomo nemico dell’uomo, e noi destinati ad ucciderci, la scienza a servizio dei padroni: questo mi fa più male delle religioni, perché, se è vero che le religioni ci compattano troppo, l’antropologia bellica ci separa e ci oppone radicalmente, sotto il divino potere dell’uccidere, che regna e decide. Questo sì che è un legame-religione disperante e condannante, trascendente-incombente.

A me, invece, la religione di cielo e terra, di Dio e umanità, ha detto: c’è respiro. Ho ascoltato Gandhi: «vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce».  Perciò, dice Gandhi: «…vi è una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa forza la vedo esclusivamente benevola», perché in mezzo al male persiste il bene. (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il bene è più del male: confido e vedo.

Poi ho ascoltato Aulo Gellio (Roma, 125 circa – 180 circa) : «Religiosus esse nefas, religentes oportet» (Noctes Atticae). Cioè, è cosa nefasta essere religioso, legato; bisogna essere di quelli che collegano. Vedo le religioni come collegamenti, reti di comunicazioni, anche con dei nodi troppo stretti, ma anche con dei flussi aperti da cui arriva e parte aria, respiro, libera comunanza. La religione può essere vissuta come libertà, come incontro amicale, e le religioni insieme come civiltà inter-culturale, mega-spiritualità. Fanno difficoltà le dottrine troppo definite, che arrancano dietro la luce, come per ingabbiarla in definizioni.

In Michele Do, in David Turoldo, in Benedetto Calati, in Adriana Zarri “religione” suonava “amicizia”, e voleva dire mistero-meraviglia del seme che cresce nella zolla oscura: lo stesso che accade in te, in me. Con questi amici la religione faceva bene, dava uno spazio totale e vicino. Lo capivano dei non-religiosi come Rossana Rossanda, come Pietro Ingrao. La religione è amicizia, rete di amicizie. Ma può essere anche mania di superstiziosi impauriti. Dipende da cosa incontri, da cosa puoi ascoltare.

Prima di questa amicizia, la religione, nel senso negativo,  mi ha anche tormentato, ma io sono stato più furbo e libero: ha preso lo spirito buono, ho scosso via le catene, ho trovato fratelli a tutte le latitudini umane in questo respiro.

Una religione unica, totalitaria? No! ho trovato maestri Simone Weil, Pier Cesare Bori (quacchero e cattolico), Raimon Panikkar (cristiano e buddhista), Gandhi («Dio è anche pane e burro per chi ha fame»), ho trovato cattolici come Arturo Paoli, che dice: «opporre religione vera e religioni false è una dichiarazione di guerra!». Come non voglio la guerra che ammazza, non voglio la religione che esclude. Quella che dichiara guerra non è la mia religione. Si può bene scegliere, no?

Ho ascoltato Bibbia, Corano, Talmud, Buddha, Confucio, Seneca... Non da studioso specializzato, ma da una persona che vive. Il vangelo mi parla più di tutti. Parla la lingua che aspettavo. La poesia è religione e la religione è poesia. Siamo tutti poeti, se ci liberiamo.

La religione è libertà; oltre la necessità dell’aria e del pane, comincia la libertà: ammiro la natura, cerco la fonte di bellezza e pace, cerco alimento allo spirito, che non debba disperare, morire, e peggio uccidere per saziarsi.

Le religioni siano modeste e serene, non si vantino del loro sapere, di essere “vicari di Dio in terra”, di chiudere Dio nei loro templi e ricordino quel che disse Gesù alla Samaritana (Giovanni 4), fatta degna della più alta confidenza, assai più che a teologi e sacerdoti.

E con i dogmi, come la mettiamo? Sono momenti, chiarezze viste. Troppo irrigidite? Va bene, andiamo avanti. Tutto cammina, camminiamo. Senza rinunciare. Scriveva a Gandhi sorella Maria di Campello: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (24 agosto1928). La sua è una chiesa “senza confini”: «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).

 

Sono riconoscente

Per concludere, la mia perplessità sul post-teismo è, modestamente, questa: se perdiamo in Dio il carattere personale, di un Tu vivo, con cui abbiamo relazione di conoscenza, sim-patia (sentire-soffrire insieme), dia-logo, ascolto ed espressione, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. C'è un ateismo serio, che dobbiamo rispettare e stimare. Un ateismo di ritorno, riduttivo, è troppo poco. Se Dio è solo una energia, una forza, io che sono appena «un vapore» (Pascal, 347) sono più di lui, perché ho coscienza di persona: so di essere.

Ascolto la storia delle sapienze umane: parlano la nostra lingua, le sapienze ascoltano, non creano, ma raccolgono la voce delle cose perché le ascoltano. Confucio dice: «Io trasmetto, non creo». Tutto in noi è ricevuto. Io sono riconoscente.

Enrico Peyretti

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