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teologia
497 - UNA TEOLOGIA FATTA DI TERRACOTTA E STAGNOLA |
Il Presepe si regge anche (se è nato) a Nazareth
Non v'è dubbio che Gesù sia nato a Nazareth; la nascita a Betlemme (il racconto “tranquillo” di Luca va in rotta di collisione con quello drammatico di Matteo, per cui non sono armonizzabili) è una creazione letteraria per suffragare la sua messianicità davidica potente (peraltro rifiutata da Gesù), quindi un'invenzione storicamente leggendaria, seppur ricca di simbolismi. |
È quasi patetica la folla che si reca a Betlemme e scende nelle grotte sino al punto in cui sta scritto: «Hic de Virgine Maria Jesus Christus natus est». Cioè per i pellegrini Gesù è realmente venuto alla luce proprio lì: un falso storico. Infatti Giuseppe e Maria non sono mai stati a Betlemme, e men che meno profughi in Egitto; e Gesù non è nato al freddo (e tremante nel gelo come in «Tu scendi dalle stelle»). Qualsiasi equiparazione con situazioni odierne è forzata, come quella del vescovo di Zaporizhzhia «Il Signore non nacque in una casa riscaldata, ma in condizioni difficili come noi». Osservazione impropria, ma passi dopo dieci mesi di guerra, anche religiosa con parrocchie contese e preti scacciati (sic).
Divinità bambina e umanità adulta
L'umanità di Dio, che dobbiamo finalmente imparare, è ben diversa dal Dio-bambino (il medesimo titolo ricorrente nei ben 5 articoli del dibattito sulla «Stampa»: Michela Murgia il 24, Vito Mancuso il 27, Bruno Forte il 28, Enzo Bianchi il 29, e Marinella Perroni il 30 dicembre 2022), un'espressione ieratica tradizionale ma pericolosa, e in buona parte fuorviante nella sua idealizzazione di un essere divino disceso dal cielo. Infatti Bianchi non la usa mai (a parte il titolone non suo di p. 30), dicendo chiaramente che «i racconti dell'infanzia, editi più tardi e non essenziali alla pienezza della fede ... sono un midrash, cioè narrazioni teologiche ... retro-proiettate a Natale e scritte alla luce della fede pasquale del Gesù adulto». E Marinella Perroni ha ribadito che le narrazioni dell'infanzia «non vogliono raccontare fatti..., e quindi non si richiede di storicizzare tali racconti», ma di analizzare «il rapporto e la sottile linea di confine fra storia e narrazione, fra teologia e letteratura».
Si va – nella pietà popolare tendenzialmente monofisita (cioè che coglie solo la natura divina del Cristo) e assai serpeggiante, come scriveva Karl Rahner, nella coscienza non riflessa dei fedeli ‒ dal «Deum infantem pannis involutum» («Dio bambino avvolto in fasce») di Adeste fideles (metà del '700, splendida armonizzazione corale su un canto gregoriano), al «Dio beato ... o Bambino mio Divino ... che vieni a penar su questo fieno...senza panni e foco» di sant’Alfonso (1754), e alla versione italiana cantabile di Stille Nacht (1818) «Astro del ciel, pargol divin» [1937; certo non si può restar fedeli all'originale tedesco poiché è impossibile, data la musica e il ritmo di Gruber, cantare in italiano la parola piana “notte” (mentre invece lo si può fare in inglese con Silent night, holy night, e parzialmente col francese Douce nuit, sainte nuit). Infatti si richiedono obbligatoriamente numerose parole tronche (ciel, divin, redentor, sognar, decor, fior), ma c'è un limite alla fantasia celestiale. L'unica frase decente è «luce dona alle menti (in orig. “genti”), pace infondi nei cuor»]. Ci sono poi allusioni indirette, subliminali come la conclusione della prima strofa di Stille Nacht, ossia «Schlaf in himmlischer Ruh(e)» («dormi nella pace celeste»): si insinua che Gesù bambino continui a godere, data la sua discesa dal cielo, della visione beatifica.
«È più facile rendere la divinità bambina che l'umanità adulta» (così la conclusione di Michela Murgia, ripresa da Enzo Bianchi). La fede cristiana non può prescindere dalla verità storica, pur essendo più grande della mera fatticità. Proprio per questa maggiore ampiezza, ad es., una volta chiarito che la strage degli Innocenti, ossia dei bambini di Betlemme e dintorni al di sotto dei due anni ordinata da Erode con la conseguente fuga in Egitto della “sacra famiglia”, è una sceneggiatura leggendaria (Erode, pur spietato, non era così sprovveduto da inimicarsi tutta la popolazione con tale inutile ferocia), possiamo apprezzarne il parallelo simbolico con la strage dei bambini ucraini o la loro fuga in altri paesi, ossia con la sofferenza-morte innocente, il danno più grave e incommensurabile della guerra. Il racconto matteano (tecnicamente un midrash-pesher) si regge senza far inorridire proprio perché è una fiction (come i massacri spettacolari nei nostri film), per rappresentare Gesù quale nuovo Mosè che si salva da una strage, come quella ordinata per gli ebrei dal faraone egiziano.
Come i Sassi di Matera
Il 28 dicembre, festa dei SS. Innocenti, andrebbe rimodulata come Giorno della Memoria per tutti i bambini sofferenti e massacrati del mondo, con la premessa doverosa che la strage di Betlemme non è un fatto storico ma un evento paradigmatico (purtroppo) di ogni tempo. Figuriamoci se l'uomo moderno-maggiorenne può credere alla favola di un re potente che si spaventa per un inerme neonato che gli potrà dare fastidio solo 20-30 anni dopo, avendo a disposizione un ventennio per scovarlo ed eliminarlo grazie al proprio servizio segreto (come fa Putin coi suoi avversari). Perciò accetto pure l'equiparazione fra Erode il grande e lo zar Putin, come tra Caifa e Kirill. E per quanto riguarda i censimenti (Lc 2,1s), essi erano residenziali: ossia ci si registrava, soprattutto ai fini fiscali, nel luogo di residenza e non in quello d'origine, che avrebbe comportato lo spostamento di migliaia di persone con tutti i rischi connessi. Comunque Giuseppe, in quanto capo-famiglia, poteva andare a registrarsi nei luoghi preposti (ad es. nella vicina Cafarnao dove c'era un presidio romano) senza portare con sé la moglie prossima al parto (assurdo il viaggio a Betlemme di circa una settimana in quelle condizioni).
Gesù è nato come gli altri bambini nelle condizioni normali, consuete di quella regione galilaica, né indigenti ma nemmeno eccezionali-sovrannaturali; certo frugali, non opulente. Tuttavia con la nascita a Nazareth (a circa 300 metri di altezza) il tradizionale e affascinante paesaggio natalizio non è compromesso: è presumibile una casa (parzialmente) scavata nella roccia, che mi raffiguro come i Sassi (grotte) di Matera. Ossia un bilocale: da un lato il kataluma di Lc 2,7, una stanza suddivisa in sala da pranzo e settore-notte con la culla sospesa (coi tiranti agganciati al soffitto) vicino al letto dei genitori; così, se Gesù (senza l'aureola) piangeva di notte, Giuseppe o Maria le davano un colpetto, con la mano o il piede, per farla oscillare come un'altalena. Dall'altro lato, in parte scavata nella roccia a mo' di grotta, la stalla-mangiatoia (la phatnê di Lc 2,7.12.16, appunto in latino praesepe) per gli animali come loro riparo: in pratica si conviveva con muli-asini, pecore-capre, forse buoi per gli aratri, nel classico effetto-stalla per incrementare la temperatura. Perciò l'aggiunta tradizionale nella grotta del bue e dell'asinello (assenti nei vangeli dell'infanzia ma ispirati da Lc 13,15) è azzeccata; e pure quella dei pastori in una zona collinare dedita alla pastorizia (e agricoltura), e non alla pesca, perché il litorale del lago di Tiberiade era distante 30 km.
Quindi il presepe, una teologia iconica fatta di terracotta e stagnola, si regge anche dentro e intorno alla rocciosa casa natale di Nazareth! Solo i Magi le sono estranei mentre, con un Gesù intorno ai 45-46 anni (così in Gv 8,57 e 2,19-21) e non 33, si salva invece la cometa, quella di Halley nel suo passaggio del 12 a. C. [molto luminosa come nel 1910 (i parametri orbitali del perigeo-perielio sono gli stessi di 2000 anni fa, che riusciamo mirabilmente a ricostruire), e non quella pallida del 1986], possibile anno di nascita del Figlio dell'uomo.
Mauro Pedrazzoli
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