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editoriali
La costruzione europea muove i primi passi negli anni 50 per impulso di alcune grandi personalità politiche, molto più che per spinta popolare. Chi ha memoria di quel tempo può immaginare cosa volesse dire proporre una stretta collaborazione a francesi e tedeschi, a pochi anni dal 1945. Per l’Italia fu, tra l’altro, una grande occasione per riaccreditarsi tra i popoli liberi, dopo il periodo fascista. La costruzione europea proseguì con lena sempre minore, fino a fermarsi dopo l’accordo chiamato Atto Unico del 1987, che unificò le varie istituzioni prima di allora esistenti. Intanto vi aderivano altri stati, alcuni con convinzione, altri obtorto collo, come il Regno Unito, sempre tentato dall’isolazionismo e dall’asse preferenziale con gli Usa. Alle soglie degli anni 90, proprio perché la costruzione politica non progrediva, di nuovo alcuni lungimiranti politici ed economisti posero le basi della moneta unica, come grimaldello per superare uno stallo, ormai evidente. Chi ora accusa l’euro e la Banca Centrale Europea di non avere alle spalle uno stato dovrebbe ricordare che senza quella scommessa oggi le istituzioni europee sarebbero ancora più fragili e arretrate. Da allora gli stati non permisero più alcuna significativa cessione di sovranità (si vedano i vari tentativi abortiti di costituzione europea), e anzi cercarono di riprendersi gli spazi perduti. Senza mezzi termini, se ora l’Unione Europea è in crisi ciò è dovuto a questo pericoloso ritorno di angusti e gelosi nazionalismi. Inoltre, benché il Parlamento europeo (elettivo dal 1979) abbia notevolmente aumentato le sue competenze, resta lontano e sbiadito rispetto ai parlamenti nazionali. Sono scarsissime le notizie sulla sua attività e mediocre è la qualità dei suoi membri, specie quelli italiani. Scalfari, nel suo recente “racconto autobiografico”, riferisce di un tentativo, insieme ad altri giornalisti di nazioni diverse, di fondare a Parigi un quotidiano in lingua francese ma con diffusione europea. Non se ne fece nulla dopo più di un anno di incontri preparatori e fu un peccato: sarebbe stata un’ottima idea per dare maggiore visibilità alle istituzioni europee, per approfondire una cultura comune, e non ultimo, per uscire dalle gabbie linguistiche che persistono e si moltiplicano con gli attuali 28 membri dell’Unione. Nel contempo quando esistono istituzioni rappresentative deboli, le burocrazie tendono a rafforzarsi e a divenire autoreferenziali. Vengono perciò viste come altro da sé dagli stati e soprattutto dai popoli, fino a diventare delle pericolose controparti, mentre, è banale ricordarlo, l’Europa siamo noi, cittadini europei. Si aggiunga, dopo l’unificazione, la debordante potenza economica della Germania, il sostanziale defilarsi della Gran Bretagna e il venir meno di quell’asse franco-tedesco che da Schumann e Adenauer fino a Mitterrand e Kohl era stato motore e al contempo garanzia di una costruzione equilibrata. Va detto infine che l’Europa unita presupponeva un carburante essenziale: una robusta e costante crescita economica. La previsione, eccessivamente ottimistica, si è rivelata fallace. Essa, tra l’altro, avrebbe consentito di tenere sotto controllo i debiti pubblici e in particolare quello italiano, del tutto abnorme. Fummo ammessi nella moneta unica, è bene ricordarlo, a patto di ricondurre il rapporto con il prodotto lordo al 60% entro il 2011 (nel ’96 era al 125%), ma se si escludono gli sforzi di ministri come Ciampi e Padoa Schioppa nei governi Prodi, nulla fu seriamente tentato per raggiungere o almeno avvicinare l’obiettivo. È certo d’altronde che le misure decise dall’Unione europea per superare il difficile momento sono state eccessivamente rigide e talora contraddittorie, senza mai dimenticare che sono state assunte da una Commissione (espressione dei governi nazionali) dominata da forze conservatrici. È dunque il momento di cercare di modificare col voto (che per la prima volta eleggerà il presidente dell’esecutivo) questo assetto, nel senso di favorire istituzioni più aperte al sociale (in ultima analisi, più democratiche). Va percorso con decisione lo stretto sentiero che, respingendo l’assalto scomposto della demagogia e degli esiziali riflussi nazionalistici, ci permetta, tenendoci stretti l’Europa e l’euro, di imboccare la via che ha come meta finale un vero stato federale. Il primo passo non potrà che essere la graduale ed equilibrata messa in comune dei debiti pubblici nazionali. □
L'ondata di separatismo, di autosufficienza, di svincolamento e localismo centripeto, è un effetto perverso dell'universalismo distorto: la “globalizzazione”. In cielo, in terra e in ogni luogo stanno e viaggiano le cose, il denaro, la rapina finanziaria con occulta destrezza, l'industria mediatica, le armi come termiti cruente, ma non le persone, i diritti umani, le visioni, non il dialogo culturale, non l'ospitalità dei popoli. Due movimenti si scontrano, come venti o flutti opposti, ed è tempesta: dappertutto si comunica e ci si influenza reciprocamente (con costi o vantaggi non distribuiti equamente), e ci si accosta fisicamente; centri planetari di potere determinano la vita fino all'ultimo villaggio. Non c'è legge comune: la Nato e gli imperi comandano più dell'Onu. Le tante e varie aggregazioni umane, a molti livelli locali e culturali, si sentono frustrate e compresse, e sono indotte a difendersi esasperando la propria identità per paura della diversità. L'economico, il tecnologico, il materiale, è dovunque globale, ma non è globale l'equità, la tutela del cittadino nel vivere, alimentarsi, esprimersi, conoscere, stare insieme con pari diritti e doveri. Se la vita comune globale è una gara che esclude e non include, chi non riesce a vincere si ritira nel suo box, e chi vince erige il suo castello-fortezza, alza muri, ribadisce confini territoriali, culturali, economici, scale gerarchiche, e predica che così è la realtà, e il meglio è impossibile. È risaputo con la mente che constata, ma non ancora nella coscienza che vive: l'umanità, mai come oggi, ha la possibilità di vivere unita, ma deve imparare che l'unità non è livellamento e omologazione. L'esercizio del potere non è evoluto bene dall'antico vizio dell'imporre fino alla capacità di coordinare le differenze, che sono fioritura di valori, nessuno assoluto, tutti in relazione. Davvero assoluta è l'esclusione dell'assolutezza, e il valore della relazione. La politica, solo da un paio di secoli, dichiara come ideale la democrazia, cioè la capacità di vivere liberi molti insieme. Si può supporre che politica, da “polis”, implichi l'idea di “molti”, differenti, insieme. Il solitario, la congrega di identici, non ha politica. Questa è l'arte di vivere, molti e differenti, senza massificarsi, senza ignorarsi, senza violenza e sopraffazione. Impresa umana di gran valore, attraverso la storia e l'evoluzione, che è favorita dalla cooperazione e non dalla selezione. Inoltre, ogni identità è anche diversità: ognuno è quello che è, e pure cambia, evolve. Essere e divenire si intrecciano nella vita. Siamo tutti, ci piaccia o no, imbarcati in un'unica scialuppa nello spazio, periclitante, senza vie di fuga. Giustizia e pace, comunicazione e cooperazione tra differenti, prima che una bella virtù, sono una semplice astuzia vitale, come il respirare, appena nati. Che cosa dunque può fare un comune cittadino per avere buona influenza sulla politica del mondo? Guardare il vicino e il lontano come un essere umano, di valore e diritto uguale al nostro, per qualificare così la convivenza, oggi e domani. □
presenta vizi analoghi a quelli per cui la Corte costituzionale (sent. n. 1 del 2014) ha dichiarato incostituzionale il Porcellum. Quei vizi erano essenzialmente due. «Il primo consisteva nella lesione dell’uguaglianza del voto e della rappresentanza politica determinata, in contrasto con gli articoli 1, 3, 48 [“voto eguale”] e 67 della Costituzione, dall’enorme premio di maggioranza – il 55% per cento dei seggi della Camera – assegnato, pur in assenza di una soglia minima di suffragi, alla lista che avesse raggiunto la maggioranza relativa». La proposta di riforma, scrivono questi giuristi, «rende insopportabilmente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del principio di rappresentanza, lamentata dalla Corte: il voto del 35% degli elettori, traducendosi nel 53% dei seggi, verrebbe infatti a valere più del doppio del voto del restante 65% degli elettori». «Ciò determina, secondo le parole della Corte, “un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente” e compromette la “funzione rappresentativa dell’Assemblea”». «Il secondo profilo di illegittimità della vecchia legge consisteva nella mancata previsione delle preferenze, la quale, afferma la sentenza, rendeva il voto “sostanzialmente indiretto” e privava i cittadini del diritto di “incidere sull’elezione dei propri rappresentanti”». Questo vizio è presente anche nell’attuale proposta di riforma, nella quale sono escluse le preferenze, pur prevedendosi liste assai più corte. «La designazione dei rappresentanti è perciò nuovamente riconsegnata alle segreterie dei partiti. Viene così ripristinato lo scandalo del “Parlamento di nominati”». Il documento dei giuristi apre però una possibilità: se le nomine avvenissero «attraverso consultazioni primarie imposte a tutti e tassativamente regolate dalla legge», anziché decise dai vertici dei partiti, le elezioni non si trasformerebbero in una «competizione tra capi e infine nell’investitura popolare del capo vincente». Osserviamo qui che la preferenza è sempre stata esposta al rischio del voto di scambio, della corruzione, delle influenze mafiose. Una democratizzazione interna dei partiti permetterebbe di rivendicare quel diritto dell'elettore, riducendo questi rischi. Un altro fattore – secondo i trenta giuristi − aggrava i due vizi suddetti, compromettendo ulteriormente l’uguaglianza del voto e la rappresentatività del sistema politico, persino più del Porcellum. La vecchia legge, per questa parte tuttora in vigore, richiede per l’accesso alla rappresentanza parlamentare almeno il 2% alle liste coalizzate e il 4% a quelle non coalizzate. La proposta di riforma richiede il 5% alle liste coalizzate, l’8% alle liste non coalizzate e il 12% alle coalizioni, cioè un innalzamento a più del doppio delle soglie di sbarramento. «Questo comporterà la probabile scomparsa dal Parlamento di tutte le forze minori, di centro, di sinistra e di destra e la rappresentanza delle sole tre forze maggiori affidata a gruppi parlamentari composti interamente da persone fedeli ai loro capi». Ciò significa annullare il voto di moltissimi cittadini, contro l'essenza della democrazia costituzionale. Insomma, questa proposta di riforma appare una riedizione del Porcellum, migliorato sotto taluni aspetti (fissazione di una quota minima per il premio di maggioranza e le liste corte), ma peggiorato sotto altri (le soglie di sbarramento, molto più alte). «Di fronte all’incredibile pervicacia con cui il sistema politico sta tentando di riprodurre con poche varianti lo stesso sistema elettorale che la Corte ha appena annullato perché in contrasto con tutti i principi della democrazia rappresentativa», i giuristi segnalano «che una simile riedizione palesemente illegittima della vecchia legge possa provocare in tempi più o meno lunghi una nuova pronuncia di illegittimità da parte della Corte costituzionale e, ancor prima, un rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica (in base all’art.74 Cost.), motivato dai medesimi vizi contestati al Porcellum dalla sentenza della Corte Costituzionale. Con conseguente, ulteriore discredito del nostro già screditato ceto politico». Enrico Peyretti |
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