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editoriali
Innanzitutto è bene ricordare che, in generale, ogni uomo politico, o partito, o coalizione elabora una sua visione dell’interesse pubblico. E quindi può avvenire (anzi, sarebbe forse grave se non fosse così!) che ciascun attore politico ritenga la vittoria della sua parte come indispensabile per realizzare il “bene del paese”. Una volta preso atto degli interessi di tutte le forze in campo si tratta allora di capire quali sono quelli che, in un dato momento, meglio si combinano con l’interesse generale. Un’iniziativa tendenzialmente responsabile sarebbe stata la collaborazione alla riforma elettorale. Ma le posizioni in merito si presentavano alquanto divergenti, poiché – anche in questo caso – ogni partito ha i propri interessi particolari da difendere. Il rischio concreto era quindi quello di non riuscire a trovare un accordo; o, se lo si fosse raggiunto, che si rivelasse l’ennesimo compromesso al ribasso. Inoltre, e qui sta il punto fondamentale, l’interesse immediato di Berlusconi non era affatto quello di impegnarsi nella modifica del sistema elettorale: era, al contrario, di portare gli elettori alle urne subito, o comunque il prima possibile. In effetti non si vede perché il cavaliere dovesse rinunciare alla gallina per un eventuale uovo domani. In primo luogo, pur prendendo tutte le cautele del caso, il vantaggio della sua coalizione rilevato dai sondaggi continua ad essere ampio. In secondo luogo, l’attuale legge elettorale a Berlusconi va benissimo (infatti l’aveva voluta lui). E dunque: perché mai rinviare anche solo di due o tre mesi il voto con il pericolo che il centrosinistra recuperasse terreno? E per quale motivo andare alle urne con un nuovo sistema elettorale che avrebbe rischiato di risultare meno “vantaggioso” di quello congegnato da Calderoli? Vero è che Berlusconi ha fatto i suoi calcoli senza considerare una novità rilevante: la decisione assunta dal Partito democratico di presentarsi da solo, cioè libero da qualsiasi alleanza di centrosinistra, alle elezioni politiche anticipate del 13 e 14 aprile. Difficile credere che il segretario Walter Veltroni sia autenticamente convinto, stante l’attuale legge elettorale (il cui elemento centrale è il premio di maggioranza assegnato alla coalizione che ottiene il maggior numero di voti), delle possibilità di vittoria di un Pd in corsa solitaria. Quindi, al di là della retorica impiegata – necessaria per mobilitare e infondere coraggio a militanti e sostenitori – si può in realtà immaginare che il sindaco di Roma abbia dato per persa la partita di aprile, adottando di conseguenza una strategia proiettata verso il futuro. In tal modo, Veltroni ha voluto innanzitutto assestare un salutare scossone all’asfittico panorama politico italiano, presentandosi con una forte carica innovativa: basta con le coalizioni larghe, incoerenti e perciò ingovernabili, sì alla presentazione di formazioni omogenee e coese. La qual cosa ha repentinamente reso vecchia l’immagine dello schieramento di centrodestra, non a caso impegnato in queste ore a modificare almeno parzialmente la propria offerta elettorale per rincorrere il Pd sulla strada della novità. La scelta del segretario democratico è stata probabilmente dettata anche dal desiderio di costringere i “cespugli” della sua area di riferimento a giocarsi la partita con le proprie forze e a superare le soglie di sbarramento senza aiuti da parte degli alleati maggiori, favorendo, per questa via, una semplificazione del quadro partitico. Inoltre, così facendo il Pd è in condizione di presentare una propria piattaforma programmatica, senza essere costretto a contrattarla con la variegata congerie di formazioni in cui è frantumato il centrosinistra. A differenza di quanto ha fatto il Prodi del 2006, il Veltroni del 2008 può dire: <<Questo è il nostro programma. Chi ci sta è il benvenuto, chi non lo condivide prosegua per la sua strada>>. In mancanza delle necessarie riforme, l’intuizione del Pd, lungi dall’essere una follia o un gesto sconsiderato come poteva apparire di primo acchito, si presenta in realtà come una sfida lanciata al modo in cui, a far data dal biennio 1994-1996, si è realizzato il criticabile – e giustamente criticato – bipolarismo all’italiana, tutto basato su quello che Ilvo Diamanti ha felicemente definito “bipersonalismo di coalizione”. È auspicabile che, riconsegnando Palazzo Chigi al centrodestra (ma non si deve mai parlare troppo presto…), la tattica veltroniana serva almeno ad innescare un deciso miglioramento del nostro sistema politico. E chissà che, in un futuro si spera non troppo lontano, l’eliminazione e la semplificazione dei maxischieramenti pigliatutto, fondamento dell’impropriamente detta “seconda Repubblica”, non permetta all’Italia di poter finalmente fare a meno di uno dei fondatori della medesima: Silvio Berlusconi. □
Il governo Prodi però è caduto nel modo peggiore: non su uno dei problemi dell’Italia, dalle pensioni ai morti sul lavoro, dalla laicità ai rifiuti, ma – ufficialmente – sullo spirito di rivalsa di un ministro della giustizia il cui partito ha raccolto 1,4% dei voti, pari a 500mila in cifra assoluta. Anzi: calcolando che al senato erano tre i senatori dell'Udeur e uno di loro ha votato la fiducia, è bastato lo 0,9 % per far cadere il governo. Del resto Mastella, a partire dal fatto che aveva fatto il sindaco nella sua città con Forza Italia ed è stato eletto in Senato con l'Unione, è stato uno di quelli che si è messo di traverso ogni volta che il governo ha tentato di realizzare qualche punto del suo programma. Se questo governo entra in crisi perché è stato tolto l’appoggio di un partitino, significa che lo stato della malattia è andato così avanti che c’è da stupirsi del contrario, che cioè il governo sia andato avanti per più di un anno e mezzo. Il governo era ostaggio di Mastella, ma anche della sinistra cosiddetta radicale. Eppure ha resistito. Tutti, grandi e piccoli, si erano impegnati sul programma di legislatura. Ora la priorità sarebbe una legge elettorale decente, per rispetto degli elettori e delle istituzioni. Resta purtroppo insoluto il conflitto di interessi. Del resto non era facile approvare una legge sul conflitto d’interessi con due voti di maggioranza al Senato. Non dimentichiamo il referendum vinto da Berlusconi a suo tempo sul possesso delle tv. A dirla tutta, preoccupa che la gente il conflitto d’interessi l’abbia assimilato: c’è ancora qualche élite che protesta, il resto è indifferenza, se non approvazione. Alcune responsabilità vanno ricercate anche nel Pd, nato chiuso a sinistra e aperto al centro, che ha spezzato l'Unione, dando a Mastella l'occasione per approfittare della sua vicenda giudiziaria per piazzarsi nella nuova zona potenziata, il centro. Il Pd del resto si è finora dimostrato più un partito di manovra che di idee, ha archiviato il progetto quasi cinquantennale dell'alleanza tra centro e sinistra per fermare la destra italiana, cioè l'ispirazione maggiore della Costituzione antifascista. A sua volta la sinistra sociale e pacifista deve ancora ben imparare l'articolazione tra ideali chiari e passaggi attraverso il possibile: la gradualità, purché ben orientata. Si può essere di lotta e di governo? Forse sì, purché la lotta sappia suddividersi nei passaggi, scendere dal grido totale all'attuazione graduale, nelle condizioni. La tradizione della nonviolenza politica (che la sinistra non ha ancora colto davvero, e la destra assolutamente per nulla) ha infatti molto da insegnare alla sinistra, tanto nell'altezza degli obiettivi, quanto nella pulizia dei mezzi, quanto nella pazienza del cammino. Ora è indispensabile nel centro-sinistra un energico, ben visibile cambio di facce, come fu quella di Prodi nel '96, per riconciliare società e politica. □
La grande manifestazione di lutto e protesta, lunedì 10 dicembre, si è svolta in un’atmosfera pesante e tesa come poche altre. Qualcuno l’ha paragonata ai funerali delle vittime, negli anni del terrorismo. Il tema dei troppi incidenti mortali sul lavoro, del morire per lavorare, è tornato di prepotenza all’attenzione del paese, con tutti i suoi aspetti già noti. Oggi nessuno si può permettere, come un tempo, di presentare come eroi del progresso le vittime di un modo di lavorare teso e condannato a spremere dal tempo e dai gesti del lavoratore, e dalla perfezione delle macchine, il massimo di efficienza e di profitto, perché la concorrenza morde le calcagna dell’imprenditore, della multinazionale, e dunque dell’operaio, in definitiva. L’antico operaio-artigiano della piccola boita, da cui è nata per superfetazione anche la Fiat immensa, faticava e tirava la carretta, anche negli stenti, ma il lavoro usciva dalla sapienza delle mani e dalla fatica delle braccia e tornava, bene o male, ai bisogni dell’uomo. La fabbrica, il capitalismo, inquadrarono sempre più l’uomo nel meccanismo tecnico e sociale, ma ancora l’operaio, gli operai insieme, sapevano di poter rivendicare i diritti della loro fatica intelligente, grazie alla coscienza del proprio ruolo sociale. Le macchine via via ridussero la fatica, poi anche il numero degli uomini, che divennero sempre più superflui. Senza alcun romanticismo, che non ha motivo, possiamo dire che l’orgoglio del lavoro, quello che Primo Levi ha saputo descrivere, la solidarietà nel lavoro, sono diventati un privilegio individuale di fronte al disoccupato e al precario. Ognuno è più solo, deve accettare qualunque lavoro, e contrattare quasi da solo il compenso alla fatica necessario per vivere. In questa triste occasione è corsa di nuovo la parola sfruttamento, l’antico nome della condizione operaia, smascherata quando si formò la coscienza di classe. Nella manifestazione del 10 si sono visti di nuovo gli operai, oggi sparpagliati come un gregge assalito dal lupo, ma in quel momento raccolti in corteo tra i cordoni, le fila, gli slogan rabbiosi urlati nel freddo, anche in parte contro i sindacati. E si sono visti nei funerali celebrati nelle varie chiese della città, sempre in un clima di raccoglimento e con una grande partecipazione dei cittadini. Come si sono visti nel luogo per eccellenza della visibilità odierna, e cioè in tv, dove hanno dato inedita mostra di sé: composti, anche nel dolore, dignitosi, in grado di presentare ben più ragionevolmente dei tanti alla ribalta le proprie ragioni e la domanda forte, ineludibile di giustizia. Ci è sembrato allora di aver capito, ancora una volta, in questo sessantennio della Costituzione, che cosa significa che «l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». □ Pagina: Indietro 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 Prossima |
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