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 373 - Come un midrash

 

ANCHE DIO SI CONVERTE ALLA NONVIOLENZA

  

A Torino, in piazza Castello, press'a poco davanti alla Feltrinelli, all'ora del passeggio tre giovani musicisti di strada soffiano nelle loro trombe della musica folk, riempiendo le due ali di portici di frastuono. La gente si ferma formando un capannello; molti gettano monete nel cappello a terra.

A distanza di 20-30 metri, seduto su uno sgabello, un altro musicista, piuttosto anziano, suona il violino. Ma il fragore delle trombe, unito al rumore del traffico e alle voci della gente impedisce del tutto di sentire il suono del violino. Si vede solo l'uomo che tiene in mano il suo strumento e che fa andare in su e in giù l'archetto. Insomma il violino è muto, e la gente passa oltre.

 

Chi è in grado di ascoltare il silenzio?

Chi narra questa esperienza è Federigo De Benedetti, che è anche l'autore del racconto La zecca. Nella storia vera e in quella inventata viene posta la stessa drammatica domanda esistenziale: chi è in grado di percepire e di rispondere a una richiesta d'aiuto fatta con voce talmente sottile da assomigliare al silenzio? Nessuno tra gli umani, come quelli che passano vicino al violinista di piazza Castello: infatti nella storia della zecca viene chiamato in causa l'Onnipotente.

 

…il Signore vide che la malvagità degli uomini e degli animali era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo e ogni altro animale sulla terra nelle acque e nei cieli e se ne addolorò in cuor suo.

Il Signore disse: «Sterminerò sulla terra ogni uomo donna o animale, maschio o femmina, e nei cieli ogni animale volante, maschio o femmina, e nelle acque ovunque tutti i pesci e gli anfibi».

Questa è la storia della piccola zecca, che aveva trovato grazia agli occhi del Signore, ed era innocente e giusta fra i suoi contemporanei.

Allora Iddio disse a ogni animale, del cielo della terra e dei mari: «È venuta per me la fine di ogni essere vivente, perché la terra il cielo e le acque per causa vostra sono pieni di violenza».

E intanto dalla parte dei monti si andava formando un ammasso sconfinato di nuvole cupe, pronte a scoppiare sfracellandosi sul mondo intero.

«Ecco», riprese il Signore, «io vi distruggerò tutti, perché in tutti vedo il male, e distruggerò ogni alito di vita».

Il cielo fu attraversato da un lampo e subito scoppiò il primo tuono, con un boato orrendo, che si andava ripercuotendo fra i monti. Quando l’ultima eco tacque, parve al Signore di udire una voce infinitamente piccola, come di un uccellino in miniatura: piangeva e gridava, la voce, e il Signore dapprima non capiva esattamente donde venisse.

Un altro tuono esplose in cielo, più terrificante ancora del primo. Ma quando sulla terra nuovamente ritornò il silenzio – e intanto l’oscurità si allungava sul mondo – il Signore udì nuovamente quella specie di pigolio, e infine ne scoprì la fonte: nascosta, quasi rintanata fra la lana attorcigliata di un caprone, c’era una zecca, una minuscola zecca, anzi appena una larva di una zecca, che singhiozzava, disperata.

L’Onnipotente si chinò su di lei, e le nuvole cessarono di correre nel cielo, come attendendo un nuovo segnale, ed Egli la vide e udì, perfettamente chiaro, il pianto disperato di quell’essere minuscolo, assolutamente innocente, del tutto indifeso davanti alla Sua ira.

«Ma cos’ho fatto, io?», diceva; «l’uovo in cui dimoravo si è appena schiuso, non ho avuto tempo di peccare, ho respirato un po’ d’aria, ma poca poca, nemmeno una goccia; e nient’altro. Tu lo sai, lo dovresti sapere».

Il Signore a sua volta ansimava: forse per il caldo soffocante o forse perché l’ira ci mette sempre un po’, prima di sbollire. E le nuvole sempre lassù, immobili.

«Già», rimuginava fra sé l’Onnipotente, «già, non so cosa mi aveva preso, probabilmente sono stato un po’ leggero, devo ammetterlo, sì, molto, anzi. Non l’avevo considerato, poverino, questo minuscolo animaletto, non l’avevo visto… io che dovrei vedere tutto. Ma se non l’avevo visto né sentito non sarà perché non volevo vederlo né sentirlo, Dio mio, poverina?».

Sì, come poteva essergli sfuggito quel grido angoscioso in realtà più potente di tutti i rimbombi dell’Olimpo di un tempo, e delle bombe a grappolo del mondo a venire? Il Signore capiva, forse per la prima volta dall’eternità del Suo passato, che la vita di quel piccolo essere meraviglioso proprio perché fragile, ma per la verità ogni vita, in fondo vale tanto quanto tutte le altre vite di tutti gli esseri animati, uomini e bestie, messe assieme, un po’ come ogni infinito – i punti di una retta, ad esempio – non è minore di un altro infinito apparentemente più vasto – i punti di un piano che si definisce un insieme infinito di rette. Per un pelo non aveva assassinato quella Sua creatura, che ora Gli appariva la prediletta fra tutte, la sua beniamina, forse quasi il Suo Gesù, ed anche bella, come del resto sono belli tutti i piccoli di tutti gli animali. E in gola Gli si formò un groppo che sembrava non potesse sciogliersi.

Le nuvole, nel cielo, presero a ritirarsi come truppe in rotta, e al loro posto apparve un enorme arcobaleno, straordinariamente scintillante. Non aveva mai provato un’emozione così intensa.

«Ecco», pensava commosso, «certi comportamenti che sembrerebbero dettati da un senso di giustizia, o anche di pietà, talvolta si rivelano tragici, catastrofici, per noi e per gli altri».

«Con che diritto Io uccido i miei figli? Con che diritto, perfino, io faccio appassire un filo d’erba?»

Forse per il rimorso o forse perché era molto anziano, e come tanti anziani facile alle lacrime, finalmente il Signore scoppiò in un pianto dirotto, inarrestabile, pieno di singhiozzi.

La piccola zecca aveva cessato il suo pianto e invece piangeva Lui: piangeva al posto di lei, come se ne avesse ricevuto il testimone. Pianse a lungo, il Signore, come mai nessuno al mondo aveva pianto, e smise solo quando i Suoi occhi ebbero spremuto l’ultima lacrima, dopo quaranta giorni.

 

Al posto di Noè una zecca

Il racconto prende l'avvio dal testo di Genesi 6, che viene riproposto con piccole variazioni fino al versetto 7. A questo punto non entra in scena Noè, che in quanto «giusto e integro» trova grazia agli occhi di Dio; c'è invece un piccolo animale, «una larva di una zecca», altrettanto giusto e integro perché senza colpe, che si fa sentire da Dio e gli chiede ragione della sua ira distruttiva. La sostituzione fa riflettere, perché sconvolge e contraddice l'antropocentrismo che domina nella Bibbia e che finora ha dominato nel pensiero occidentale. Oggi però nella coscienza di molti è in atto un mutamento antropologico: non credenti e credenti, qui e altrove, avvertono l'esigenza di uscire da questa logica soffocante e autolesionista, che ci induce a terribili misfatti. Basta pensare al modo in cui si allevano e si uccidono gli animali che ci nutrono con la loro carne. Tra i credenti all'interno dell'orizzonte ebraico cristiano ci sono maestri, come lo studioso e scrittore Paolo De Benedetti, che ci indicano nella Bibbia episodi e parole di un diverso sentire verso tutti i viventi, e che in particolare guardano agli animali come nostri fratelli. Il pentimento e il pianto di Dio in risposta alla voce sottile della zecca appartengono a questa nuova fertile direzione esistenziale e filosofica. È un vero rovesciamento di un modo di pensare che dura da secoli.

Io ritrovo ne La zecca la struttura dei midrashim, antiche storie narrate dai maestri ebrei che rielaboravano con libertà creativa passi e parole del testo biblico per trarne insegnamenti nuovi e attualizzarne il messaggio. L'autore segue la struttura del midrash narrativo: prima riproduce il testo biblico e poi introduce la zecca al posto di Noè, lasciando definitivamente fuori dalla storia il patriarca e la sua arca; mantiene il diluvio universale coi suoi quaranta giorni, ma è un diluvio di lacrime di Dio.

Anche nei comportamenti di Dio ritrovo echi di antichi midrashim. In alcuni, come succede ne La zecca, il Signore va in collera con conseguenze funeste ma poi si pente; soffre per il dolore del mondo che ha causato lui stesso; piange; soprattutto ama le vite che ha creato e le opere meravigliose compiute dalle sue creature. Riassumo qui due di queste storie.

 

Un posto per piangere

La prima si rifà a Esodo 14, dove si narra che per l'intervento miracoloso di Dio cavalli e cavalieri del faraone vennero travolti dalle acque del mar Rosso. In cielo, prima dell'annegamento, ci fu una contesa davanti al Signore tra Asa, l'angelo protettore degli egiziani (tutti i popoli hanno lassù un angelo che li protegge), e Michele, l'angelo protettore degli israeliti. Convinto alla fine dalla prova portata da Michele, un mattone in cui era stato murato un neonato ebreo, Dio emise sugli egiziani il verdetto e li mandò a fondo. Gli angeli volevano intonare all'unisono un canto di gloria all'Onnipotente, ma Dio disse loro: «L'opera delle mie mani affonda in mare e voi volete cantare?».

Un altro midrash racconta che, avendo permesso la distruzione del tempio di Gerusalemme, il Signore cominciò a piangere e disse: «Che ho fatto?». Il capo degli angeli venne da lui, si prosternò e lo pregò: «Voglio piangere io affinché non sia tu a piangere!». Ma Dio gli replicò: «Se tu adesso non mi lasci piangere, io vado in un posto dove tu non puoi andare, per poter piangere per conto mio. Là mi lamenterò in segreto».

La libertà e la creatività di questi midrashim e de La zecca emergono anche dai racconti di Federigo De Benedetti raccolti nel libro appena uscito Il nome di Dio. Il suo Dio è una evoluzione da terzo millennio della figura del Signore creatore del mondo, onnipotente e onnisciente, della tradizione ebraico cristiana; ne conserva le tracce, ma al tempo stesso la contraddice.

Dio è sceso dal cielo, dove ha lasciato angeli e serafini. È un uomo anziano, e per questo facile al pianto; è sensibile alle nostre sofferenze; è aperto al dubbio sul suo operato; prova spesso rimorsi. Ci considera ancora sue creature e in quanto tali ci ama e vorrebbe alleviare i nostri dolori, anche quelli che lui stesso ha permesso o causato. Ha perso però i poteri del Dio biblico. Non può risarcirci dei danni che ci ha inflitto; non può consolarci quando abbiamo paura, della morte in primo luogo, visto che non ci promette vita eterna; non può remunerare i suoi devoti per la loro fedeltà, come ha fatto con Giobbe.

Questa debolezza di Dio dà voce e figura a interrogativi che molti di noi, non credenti e credenti cristiani, ci portiamo dentro. Di questa debolezza Federigo ci parla in spirito di verità, non è mai blasfemo. Anzi, entra a pieno diritto nel dibattito tra quei credenti che ogni giorno s'interrogano sulla loro fede e che stanno facendo un cammino di ricerca. A questi non interessa più, io credo, la disputa sull'esistenza o non esistenza di Dio, che lasciano ai teologi e ai filosofi; hanno invece bisogno di crearsi un loro immaginario su Dio per vivere in relazione con lui. Io, ad esempio, quando prego «Padre nostro che sei nei cieli», non posso più pensare ai cieli della tradizione; quando alla fine gli chiedo di «non metterci alla prova», non ho in mente un Dio che potrebbe indurci in tentazione di peccato, come pensava invece mia nonna, ma uno che mi apra la strada dell'amore alla vita, della speranza e della fiducia in lui.

L'autore dei racconti de Il nome di Dio si dichiara ateo, ma condivide con i credenti gli stessi bisogni spirituali profondi. E come lui uomini di altre religioni. Persone anche molto diverse da noi, ma con cui abbiamo in comune la tensione verso un orizzonte che superi la materialità dell'esistenza. Con tutti loro oggi ci si può confrontare ed aiutare nella ricerca del senso della propria vita e del proprio rapporto con Dio.

 

Tullia Chiarioni

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