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 402 - Crisi del racconto storico e maschere del potere

 

Bush, Medusa e le Sirene

 

Che cosa è successo alla Grecia, la culla della nostra civiltà? Marco Revelli in I demoni del potere (Laterza 2012) indaga sul potere a partire dalla condizione in cui si è venuta a trovare la Grecia.

Il suo stato attuale è «generato non da un cataclisma naturale né da un evento bellico, ma dall’operare implacabile quanto cieco di un meccanismo “fisiologico” di quella stessa civiltà: una sorta di potere ctonio, impalpabile, invisibile, astratto e impersonale, ma tuttavia feroce» (pp. VIIIs.). Sembra la descrizione dei “demoni originari” del mondo antico e Revelli cerca di scrutare il volto del potere interpretando i significati simbolici con cui lo rappresentano i miti greci: «le espressioni mentali di una dimensione del comando ancora difficilmente riconfigurabile in termini “umani”, e rappresentata tradizionalmente nell’unica forma in cui il “numinoso” (il “super-umano” o il “dis-umano” per natura) può essere immaginato: quella mitologica» (p. IX).

 

Entra l’irrazionale, esce la sovranità

Dalla nascita della polis, il Nomos e il Logos cercano di porre un argine alle forze irrazionali della natura (anche umana). La città è il luogo in cui la violenza è sottoposta al controllo della ragione e del diritto. La sovranità è quella della legge, non quella dell’arbitrio. Con il «crollo dei muri» (quello di Berlino, ma soprattutto quelli imposti dopo la crisi del ’29 all’irrazionalità della finanza) qualcosa di irrazionale è penetrato dall’esterno nella nostra fragile civiltà e qualcosa, però, ne è uscito: la sovranità. Ora essa è “dis-locata”, invisibile, ma il suo potere è totale e letale: «Se un precedente può essere trovato, esso sembra piuttosto affondare nelle ombre di un tempo “pre-storico”, prima che il verbo “dominare” perdesse la propria radice teriomorfa, per l’irriducibilità di questa inedita forma di Sovranità al mondo addomesticato della polis: per questo suo abitare in uno spazio altro (in un iperuranio) diverso e separato da quello in cui si svolge la vita degli uomini; per questa sua invisibilità, e tuttavia onnipresenza, con l’intrusività distruttiva propria del “numinoso”; per questa sua prerogativa di rendere “nuda” la vita (“sacrificabile”, “disponibile” nelle sue radici), con l’impassibilità dei fenomeni naturali, l’implacabilità degli algoritmi matematici, l’insindacabilità delle disposizioni teocratiche. E anche per l’irrappresentabilità discorsiva (la non narrabilità) del suo essere e del suo operare: per la difficoltà a ricondurre a “racconto storico” (dotato di senso) la sua vicenda» (pp. XIIs.).

 

Perseo, o la forza da fine a mezzo

La Gorgone ha un potere terrificante, la Gorgone è il potere. Etimologicamente, Medusa è colei che «domina» e «ammalia». Il suo sguardo pietrifica, non può essere sostenuto, pena la perdita di sé: «La maschera è il vero volto che il Potere mostra. È il volto del potere, esattamente come il volto inguardabile di Medusa. Nessun potere – ci dice Canetti – è mai “nudo”: nuda dev’essere, al contrario, la vita che esso sottomette a sé» (p. 8). Perseo è ricordato come fondatore di città e uccisore di mostri, «egli è colui che “doma” le potenze infere, la naturalità selvaggia degli elementi e delle passioni, riaffermando una ragionevole idea di ordine della Polis» (p. 16). Nell’impresa di Perseo non vince una violenza maggiore, ma la forza unita al coraggio di guardare il volto di Medusa riflesso nello scudo. È il kantiano sapere aude, la luce della ragione che illumina la storia e trafigge le tenebre dell’orrore senza tempo. Ciò avviene domando il Potere nella sua immagine riflessa: «Il moderno racconto sull’“Ordine” subisce, per così dire, un’apostrophé, uno “scarto laterale” spostando lo sguardo dall’ambito “disumano” della violenza pura, primigenia e infera, come espressione di potere fine a se stesso, a quello della costruzione tutta “umana” di un ordine consapevolmente voluto attraverso l’elaborazione delle istituzioni ad esso preposte: della machina machinarum, appunto, che non rinuncia all’esercizio della Gewalt (della Forza-Violenza) ma la retrocede allo status di “mezzo” rispetto ai propri fini specificamente ed esplicitamente “umani”» (p. 19).

Il mito prosegue, infatti, e Perseo utilizza la testa di Medusa come arma contro i nemici della polis. Il diritto sottomette il potere e ne doma la forza, ma, appunto, la forza sopravvive, imbrigliata e legittimata quale strumento del diritto. Nello stato di diritto, nell’età dei diritti, «per quasi quattro secoli il “volto di Gorgone del potere” è rimasto per lo più celato alla vista, la sua forza pietrificante è stata in buona misura “controllata”, così da far pensare (e sperare) che l’ordine della polis fosse ormai definitivamente stabilito sotto il “governo delle leggi”. Evidentemente, però, il potere orrifico di Medusa non era stato del tutto spento se la Gorgone ha potuto ripetere la propria terrificante incursione nel cuore d’Europa, nella prima metà del Novecento (…). La “globalizzazione” è, per molti aspetti, l’experimentum crucis intorno al quale si gioca il destino del “paradigma politico dei moderni”. In essa si materializza l’opzione ideale di Kelsen di un ruolo esplicitamente “sovrano” dell’ordinamento giuridico internazionale, assurto a potenziale principio di ordine sul ritrarsi e indebolirsi delle vecchie sovranità nazionali. E nello stesso tempo si manifestano, preoccupanti, i sintomi di una crescente difficoltà del dispositivo giuridico-politico a controllare la potenza distruttiva dei propri stessi mezzi coercitivi» (pp. 22-24).

 

Il potere della seduzione, la seduzione del potere

L’altra figura mitica presa in considerazione da Revelli è quella delle sirene. Anche in questo caso si tratta di mostri dalla natura umana e bestiale, ma questa volta il loro potere è esercitato con la voce e non con la vista. Esse «sono l’espressione di un soft power altrettanto distruttivo dell’hard, ma che agisce, per così dire, “a distanza”» (p. 39). Le sirene incarnano il potere della seduzione e la seduzione del potere, la loro bellissima voce ha «suono di miele». Le seducenti creature promettono allo sprovveduto che ascolta il loro canto che ripartirà «pieno di gioia e conoscendo più cose», poiché «tutto sappiamo quello che avviene sulla terra». Il potere seducente e mostruoso sa tante cose che gli uomini non sanno, ma chi ode il suo canto non può restare in vita, poiché le sirene si nutrono di colui che le ascolta. Odisseo, però, sa quanto basta per non lasciarsi incantare e l’astuzia gli consente di ascoltare senza perire. Le sirene vivono su di un’isola in cui il tempo è immobile, un buco nero del tempo. La vita, il tempo, le vicende di chi entra nel campo di forza del buco nero sono attratti e annullati, le storie vi sono inghiottite, finiscono. La storia di Odisseo, invece, non finisce nell’isola di ucronia, anzi, dal suo racconto nasce una grande storia.

Odisseo passa attraverso il mito e supera la sua temporalità, «fonda il trapasso dall’universo mitico-naturalistico al mondo storico-sociale. Dissolve il mito e la sua fascinazione perversa e inaugura l’epoca del racconto storico» (p. 41). «Prima di quell’ascolto irrituale, di quel movimento forzato dentro il tempo fermo del mito, il canto delle Sirene non era ancora che un suono indistinto» (p. 43), qualcosa di inumano e impersonale, ma corale, armonico. Essere soggetto, invece, significa non accordarsi, «“resistere alle immagini, ai testi, ai discorsi e alle musiche che si incontrano”. Diventare “soggetto” significa, cioè, poter “ascoltare rifiutando la nostra approvazione”» (pp. 44s.). Il soggetto non è in balia del potere della parola altrui, anzi, Odisseo impone un ordine, il suo, all’esperienza e alle parole che la raccontano. Il potere delle sirene è reso impotente e le sirene, cantanti, sono cantate.

 

L’impero crea la realtà

Il racconto storico appare per molti aspetti come l’equivalente funzionale del diritto e la storia come l’omologo strumentale della norma scritta: infatti «il Racconto, come il Diritto, offre una struttura formale al tempo: una matrice all’interno della quale il tempo può essere trattato, e ciò che in esso si “compie” può venire sottoposto a giudizio (assume e mantiene un proprio “senso”). (…) Alle cadenze di quel “canto nella civiltà” si è attenuta, fino a ieri, quella forma essenziale di sapere che chiamiamo Storia. A quel doppio movimento attraverso il quale il tempo è stato riconosciuto e rappresentato, “addomesticato” così da poter essere “raccontato”, ha corrisposto la struttura stessa del racconto storico inteso non come forma di intrattenimento ma come operazione pubblica di elaborazione, attraverso la separazione sacrificale dal passato concreto e la sua riappropriazione linguistica, di un senso collettivo del divenire (pp. 48s.).

Secondo Revelli, però, stiamo assistendo alla crisi del racconto storico, di uno dei pilastri su cui si è fondata la nostra civiltà. Da un lato l’orrore del Novecento ha varcato i limiti della comprensibilità e della dicibilità, dall’altro la storiografia fatica a trovare il registro e il linguaggio adatti per raccontare il nostro tempo. Infine, la crisi del discorso storico si manifesta anche nella sproporzione tra gli sforzi necessari alla comprensione della realtà dei comuni cittadini e la possibilità concreta di decidere gli eventi storici dei poteri forti: «Milioni di persone private della propria capacità di fare la Storia vengono “portate dentro” una storia narrata da un altro, e dall’alto, sussunta a una narrative che le agisce come materia grezza del proprio narrare, non solo nella fiction, ma nella real life. (…) Il mondo raccontato come unico mondo possibile. Chi volesse avere conferma di questo inedito modus operandi del “nuovo ordine narrativo” e della sua stretta sinergia con la forma post-storica del Potere può leggersi, con profitto, il resoconto dell’incontro con un senior adviser dell’allora presidente George W. Bush, avvenuto nel 2002, del giornalista dell’«Esquire» Ron Suskind, che pochi giorni prima aveva severamente criticato l’ex communications director della Casa Bianca Karen Hughes, la donna incaricata di “vendere Bush al mondo”: “Il consigliere mi disse – riferisce Suskind – che ragazzi come me erano ‘in quella che noi chiamiamo una reality-based community’ che egli definì come gente che ‘crede che le soluzioni emergano dai vostri giudiziosi studi della realtà discernibile’. Io assentii e mormorai qualcosa circa i principi dell’illuminismo e dell’empirismo. Lui mi troncò il discorso: ‘Questo non è più il modo in cui funziona il mondo oggi’. E continuò: ‘Noi siamo un impero, ora, e quando compiamo un atto, noi creiamo la nostra stessa realtà. E mentre tu stai a studiare questa realtà – giudiziosamente, come tu vuoi – noi compiamo un altro atto, creando altre nuove realtà, che tu puoi studiare ancora, e questo è il modo in cui le cose succederanno. Noi siamo gli attori della storia, e tu, tutti voi, resterete giusto a studiare quello che noi facciamo’» (pp. 69-71).

Claudio Belloni

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