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politica
La prima riguarda l'uso di accompagnare i testi, inviati per posta elettronica su temi di rilevanza politica, con citazioni bibliche che rischiano di suonare non solo come autorevoli rimandi a espressioni di umana saggezza, ma come vero e proprio invito ai credenti, impegnati in tali attività, a modellare direttamente le proprie scelte su una qualche “Parola di Dio”. Ne è un eloquente esempio quanto il presidente della Caritas Internationalis, l’arcivesco di Manila Louis Antonio Tagle, dice a un giornalista che gli chiede se un politico credente può votare contro la legge sullo ius soli. Citando Antico e Nuovo Testamento, infatti, egli afferma: «Non è solo una politica da adottare, ma un vero e proprio mandato da non tradire». E penso che con “mandato” non si riferisca a quello elettorale, ma a quello battesimale. La seconda si sofferma sulla sua definizione della funzione svolta dagli uomini che governano oggi le nazioni. Essi altro non saprebbero fare che “gestire l'ingiustizia”. Una ingiustizia così storicamente radicata nel cuore e nella mente della maggioranza degli uomini da risultare al presente realisticamente inestirpabile. Tanto che ormai «solo l'idealismo e la profezia, ascoltata e intimamente accolta, illuminano e orientano l'intelligenza operativa in scelte decisive di vita e di qualità umana». Francesco leader politico Per chiarezza e per non coinvolgere nelle mie critiche i molti interventi di Peyretti, sempre interessanti, riporto qui la sua e-mail del 26 settembre che le ha provocate. I farisei gli chiesero:"Quando verrà il regno di Dio?". Rispose:"Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!" (Lc 17,20-21). I media e i politici che hanno voluto usare il "prudenza" di papa Francesco in appoggio alla politica di contenimento e rinvio dei migranti, destinandoli al tormento libico, ascoltino la catechesi di oggi, 27-9, del papa, su "condividere il viaggio". … Chi vuole ascoltare la parola evangelica di Francesco, la ascolti sempre, e non quando fa comodo usare un frammento dell'insieme. La realtà è che oggi Francesco è il maggiore (unico?) leader mondiale di "politica" umana (la quale è costruzione di pace e giustizia, non presa di potere), l'unico che chiama col vero nome l’"economia che uccide", la inequità che governa i governi, che falsifica la democrazia, sicché la politica giusta oggi è l'opposizione con le idee giuste e nonviolente, non è il vincere con maggioranze fatte di numeri corrotti da paura, inganno, egoismi. Chi gestisce "l'ordine delle cose" attuale, gestisce l'ingiustizia. Un regno senza re Parto dalla citazione di Luca. Nessuno, credo, abbia dubbi sulla valenza politico-religiosa, implicita nell'annuncio evangelico della prossimità del “Regno di Dio”, metafora pastorale e teologica formata dall'unione di due termini dalla valenza semantica diversa, che uniti dalla preposizione “di” danno vita a una sottospecie di ossimoro interpretabile solo simbolicamente. Vero è che le Bibbie ormai tendono a scrivere “regno” con la minuscola per laicizzarne il senso. Ma è altrettanto vero che lasciano maiuscolo “Dio” come fosse un nome proprio, il che fa sì che la potenziale equivocità del nostro linguaggio cresca, favorendo l'integralismo, oggi come ieri. Basti ricordare che dall'uso politico del tema escatologico del “Regno di Dio” sono derivate: la falsa “Donazione di Costantino” e la nascita dello “Stato della Chiesa”, la consacrazione del “Sacro Romano Impero”, la legittimazione divina delle monarchie rette da “Sovrani Cristianissimi”, i “Papa-Re”, le feroci dittature di “Uomini della Provvidenza”, l'enfasi caricaturale sulla regalità di Cristo, un “Cristo Re” al cui “altare” avrebbe dovuto correre un “esercito”, guidato da quell'infallibile “Vicario” che va sotto il nome di “Romano Pontefice”. Certo la pericope di Luca conclude: «Il regno di Dio è in mezzo a voi», ma ciò non significa che esso sia già presente in forma, seppure incompiuta, nella mente di qualcuno come progetto politico o nella pratica organizzativa di un'istituzione pubblica o privata, fosse anche la Chiesa o la più cristiana tra le compagini partitiche di destra, di centro o di sinistra. Significa che è attivo nel mondo in cui viviamo come “lievito” e “granello di senape”. Lievito e granello destinati a diventare non la “pietra angolare” di un “Tempio” indistruttibile o un imperiale “cedro del Libano”, simboli di potere religioso e imperiale, ma un “frondoso cespuglio dell'orto” capace di offrire rifugio a stormi di passeri, o anche un “grumo di lievito” nascosto nella massa della pasta, simboli di ospitalità e di fermento vitale nascosto, che nessuno può indicare dove sia e pretendere di manipolare come cosa propria, neppure per separare il grano dalla zizzania (Mc 4 e Mt 13). Ogni parola evangelica intesa a dare voce alle attese e alla possibile realtà storica del Regno trova capacità espressiva e comunicativa nel tempo e sulla nostra bocca solo come metafora e simbolo, dimensioni mai definibili del “creato”, della sua intrinseca capacità di trascendere se stesso. Come tale va trattata, rilanciandola in ogni secolo e continente come simbolo e metafora, che rifugge da ogni passata, presente e futura storicizzabilità, in quanto è quell'apertura a un'alterità che, senza essere altrove rispetto al nostro mondo e alla nostra storia, non ci consente di identificarci e chiuderci (esaurirci) in essa. Va dunque rispettata nella sua inoggettivabilità. In fondo fanno così già i libri profetici e i vangeli. I primi precisano che mancano 1290 giorni alla fine della “grande tribolazione” e subito aggiungono: «Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a 1335» (Daniele 12, 11-12). I secondi mettono in bocca a Gesù: «Quanto a quel giorno e a quell'ora nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24-36). D'altronde ogni esegeta sa che la chiave di lettura della Bibbia non è né letterale, né scientifica, né strettamente storica, ma kerigmatica, metaforica e simbolica, vista l'impronunciabilità del nome di Dio e la Sua stessa irrappresentabilità. Caratteristiche teologiche che non possono non coinvolgere l'intero complesso del Suo essere e operare nel nostro essere e operare. Politica è progettare, realizzare e amministrare Quanto alla condizione disastrosa della situazione presente penso che sia un errore culturale impostare il giudizio storico, etico e politico sulle vicende del proprio tempo a partire dalle prospettive di felicità e di benessere di un qualsivoglia progetto sociale utopico e ideale e che tale errore diventi anche esegetico e teologico se prende a termine di paragone le configurazioni letterarie dell'annuncio profetico e messianico. È inevitabile che la cruda mediocrità che caratterizza la finitudine e la limitatezza dei tempi e degli spazi del mondo in cui ci troviamo a vivere, non possa che ripugnarci, se messa a confronto col “mondo delle idee”, con i mirabilia delle Vecchie e Nuove Atlantidi. E peggio sarà se a termine di paragone si prenderanno i sogni delle profezie edeniche, con le prospettive di pace, felicità e giustizia, legate al compimento del Regno e orientate alla ricerca di una veridicità eterna ed universale. Chi, ponendosi dal punto di vista dell'idealità e della messianicità, non giudicherebbe inadeguati e mediocri, se non spregevoli, gli eletti e gli elettori che di tale mondo corrotto si assumono l'onere? Questo anche se nessuno può davvero sentirsi del tutto estraneo alla dinamica di tanta deriva e alla pochezza dei suoi protagonisti, quasi gli fosse lecito considerarsi ontologicamente superiore ad essi. D'altronde lo stesso acritico abbinamento di idealità e utopia a profezia e messianismo è più che discutibile. Si tratta infatti di fenomeni culturali assai diversi tra loro, tanto nello specifico genere letterario quanto nella loro politica finalizzabilità. L'idealità utopica, in quanto mira direttamente alla meta universalista di un umanesimo compiuto, ha una relazione puramente teorica col tempo e con lo spazio e può giocare un ruolo di qualche rilievo per l'agire politico solo se trova un'intelligente e realistica capacità di mediazione. Il profetismo biblico, agendo nel pieno della realtà storica particolare e contingente di un popolo, apre tale realtà a possibilità inaudite, che senza demonizzarla, né distruggerla, dall'interno ne esaltano le libere potenzialità. Ci troviamo qui già nel cuore del secondo problema che intendo affrontare. Peyretti conclude la sua breve e-mail con questa affermazione perentoria: «Chi gestisce "l'ordine delle cose" attuale, gestisce l'ingiustizia». Al che mi chiedo: che altro potrebbero fare i politici, che con tale ordine ingiusto hanno a che fare, se dal giorno che segue quello del grande e sereno riposo sabbatico di Dio, il “creato” si rivela tutt'altro che “molto bello e molto buono”? Se da allora troppi, tra i guru narcisisti di ogni umana generazione, confrontando i propri sogni coi mali del proprio tempo, li denunciano come i peggiori della storia e ci invitano ad assumere decisioni e prassi socio-politiche degne dell'ultima apocalittica battaglia tra bene e male? Non dare a Dio quello che è di Cesare Peyretti motiva così la sua denuncia del disvalore dell'odierna politica nazionale e internazionale: «Oggi Francesco è il maggiore (unico?) leader mondiale di "politica" umana … l'unico che chiama col vero nome la "economia che uccide". … (Economia) che falsifica la democrazia, sicché la politica giusta oggi è l'opposizione … non il vincere con maggioranze fatte di numeri corrotti». A me questo argomentare, più che una risposta capace di mordere la realtà storica e politica del presente, pare la fuga da ogni ipotesi di risposta che possa qualificarsi programmaticamente e istituzionalmente realizzabile. Lo rende evidente la scelta stessa di considerare politicamente accettabile solo l'esercizio di un'opposizione di principio a ogni tentativo di acquisire “democraticamente” la forza sufficiente per proporre e realizzare programmi di governo intesi alla riforma del riformabile. Lo conferma la citazione della vigorosa espressione bergogliana sulla presenza tra noi di “un'economia che uccide”, che, estrapolata dal suo contesto e resa con “l'economia che uccide”, suona qui come la demonizzazione dell'economia stessa. Non mi resta, dunque, che porre all'attenzione di Peyretti e dei nostri lettori alcuni spunti di riflessione. Possiamo, senza essere “guelfi” più o meno giobertiani, pensare oggi a una politica italiana, europea o addirittura mondiale direttamente guidata o ispirata da un papa o da altro capo religioso? Possiamo chiedere ai politici, che non nascondono il loro essere cristiani o che maldestramente lo esibiscono, di comportarsi da “cattolici” nelle aule di Camera e Senato, nelle assemblee regionali e comunali, senza ruinianamente rilanciare la politica dei “principi non negoziabili”? Possiamo fare carta straccia di tutte le distinzioni tra i vari campi del sapere e dell'agire, degli ambiti e dei poteri presenti nella società, dei reciproci riconoscimenti di autonomia dei diversi settori culturali, delle libere e fecondissime interazioni tra le scienze, tra queste a la filosofia, la teologia, il diritto, l'etica, l'economia e la politica, la teoria e la prassi? Possiamo in nome della vocazione olistica delle visioni religiose del mondo, quasi tutte ormai orientate al monoteismo universalista, ma finora incapaci di coniugarlo nella realtà storica altrimenti che come totalitarismo confessionale, annullare la distinzione classica tra Dio e Cesare? Possiamo dimenticare che «Dare a Dio quello che è di Cesare», perché anche Cesare, per la teologia antica e moderna, fa parte della creazione e della storia guidata da Dio, ha voluto dire in pratica sacralizzare ogni potere costituito? Possiamo non sapere che questa distinzione è essenziale per non cadere nell'integralismo religioso e nel totalitarismo politico? Che solo se «non diamo a Dio quello che è di Cesare», abbiamo (forse) la possibilità di «non dare a Cesare quello che è di Dio»? Aldo Bodrato
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