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L’economia non è una scienza come la fisica

 

Ma veniamo al punto. Tu scrivi che l’economia è «roba con aree e paletti ben definiti, quasi come le leggi fisiche». Guarda, vedrò di perdonarti solo perché hai scritto «quasi».

1) L’economia come disciplina non è certo una scienza nel senso «duro» della fisica. Senza contare che anche la fisica sta progressivamente rinunciando a molte delle sue «certezze» di un tempo e spesso preferisce parlare di «probabilità». Al massimo possiamo riconoscere all’economia lo statuto di scienza umana, sociale, o altre definizioni che la mettano insieme a tutti quei tentativi più o meno approssimativi di indagare l’umano con criteri il più rigorosi possibile. A me per esempio fa ridere che uno scienziato vinca il Nobel per l’economia perché scopre che il comportamento umano in ambito economico non è completamente razionale. Ma va? Certo che se parti dal presupposto dell’homo oeconomicus – cioè di un agente (che non è già più un «uomo») che fa le sue scelte in base alla ragione – devi prima pensare che l’homo sia razionale e poi devi scoprire che nella realtà non lo è. Ma allora sei un bigolo, non uno scienziato. E se ti vengono dietro legioni di economisti classici, preoccupiamoci anche per l’economia classica. C’è una battuta, cattiva, secondo la quale gli economisti passano metà del loro tempo a fare previsioni e l’altra metà a spiegare perché erano sbagliate.

Sto facendo una caricatura, lo so, ma forse nemmeno troppo. Fatte le debite considerazioni, non mi puoi parlare dell’economia come di una disciplina «quasi come la fisica». Altrimenti ci sarebbe un certo consenso tra gli economisti. E non parlo del consenso dovuto al fatto che il neoliberismo ha occupato quasi tutte le cattedre universitarie, i giornali mainstream e gli apparati di governo, emarginando marxisti, keynesiani e altre specie rare. In fisica ci sarà anche discussione, ma sui fondamenti non ci sono discussioni. In economia sì, proprio perché non è una scienza come la fisica.

 

Un milione di irlandesi morti

2) L’economia come realtà non è certo una scienza, ma, appunto, una realtà; una realtà complessa fatta di un intreccio di produzione, scambio e consumo da comprendere non in astratto ma nel contesto sociale e storico in cui le cose avvengono. Comprendere l’economia reale è importante non per sfruttare al meglio le risorse (quelle umane comprese), ma per poterla governare, e governare con criteri in ultima istanza non economici: criteri politici orientati al bene di tutti e non criteri economici orientati al profitto di ciascuno – o, peggio, di qualcuno. Quanto governarla e in che modo dipende dai «gusti», dalle teorie economiche, etiche, religiose, e via dicendo. Non ho soluzioni magiche, ma pretendere che nessuno regolamenti l’economia a mio modo di vedere è semplicemente criminale. Mi limito a un solo esempio che vale per tutti: intorno al 1847, aspettando le mani invisibili e cercando di non turbare il sacro diritto del mercato di fare profitti senza turbare la legge-paletto, come scrivi tu, della domanda e dell’offerta, hanno lasciato morire un milione di irlandesi. Non mi puoi dire che va bene così, non ci posso credere. Se anche si trattasse di un paletto, è un paletto che va rimosso. Se la vicenda non ti fosse nota, provo a riassumertela con questo passo: «Una visita a questo museo [di Strokestown, in Irlanda] è assai utile per rendersi conto del paradosso di crudeltà cui l’opulenta Inghilterra Vittoriana sottopose gli irlandesi, all’epoca sudditi della Corona a tutti gli effetti in seguito all’Unione dei due parlamenti. Ispirandosi ai principi del liberismo ortodosso della scuola di Manchester, i governanti inglesi si rifiutarono infatti di mandare aiuti e considerarono la carestia come un’occasione fornita dalla Provvidenza per mettere fine alla sovrappopolazione e all’arcaico sistema agrario dell’Irlanda. L’eloquenza dei numeri riportati dal materiale in mostra a Strokestown fanno capire bene il dato più terribile di tutti, e cioè che mentre centinaia di migliaia di persone morivano di fame, l’Irlanda esportava tonnellate di generi alimentari verso l’Inghilterra e la Scozia. Spulciando i registri si apprende per esempio che durante il Black ’47, l’anno peggiore della Carestia, oltre quattromila navi cariche di grano, farina, cereali, uova e carne lasciarono l’isola con direzione Bristol, Glasgow, Liverpool e Londra» (cfr. https://www.avvenire.it/agora/pagine/fame-).

 

Il prezzo del latte dei pastori sardi

Torniamo più vicino nel tempo e nello spazio: è giusto, mi chiedi nella tua lettera, il prezzo di mercato del latte prodotto dai pastori sardi? Non ne ho idea, ma prima di dire che devono rassegnarsi, se avessi voce in capitolo cercherei di capire. Prima di accettare, vorrei almeno provare a pensare. A proposito del mercato del latte ho raccolto qualche informazione che mi pare molto significativa. Passiamo alla Lombardia, la mia regione: nel 1976 un litro di latte vaccino veniva pagato circa 0,10€ al produttore e al consumatore un litro di latte fresco costava circa 0,14€.  Nel 2018 un litro di latte veniva pagato circa 0,40€ al produttore, ma il suo prezzo sul  mercato era di circa 1,50€ (cfr. https://www.clal.it/?section=confronto_stalla_consumo).

Va tutto bene a tuo parere? Mi ostino a dire di no. Che poi io non sia in grado di dare soluzioni non toglie il problema. Io faccio lo sforzo di pensare filosoficamente, non sono un economista o un politico. Ma la mia intelligenza si rifiuta di chiudere il discorso e dire ai pastori sardi, agli allevatori lombardi e ai raccoglitori di pomodori senegalesi in Puglia: «questo è il mercato, bellezza». Se ti rifiuti, lavorerà un altro più povero di te.

Chiediamo al nostro comune amico Mario, che ha a cuore l’Africa, se i contratti sono da considerare paletti. Se un’azienda firma un contratto ci sta bene solo perché è stato firmato? Dalla firma in poi va rispettato? Come un dato di fatto? Non ci interessa capire il contesto e le modalità? Magari un paperone illuminato e magnanimo vuole investire un sacco di soldi in Africa per aiutare i poveri. Può essere, perché no? Però può anche succedere che una multinazionale strappi un contratto di estrazione in Congo approfittando della sua forza e della corruzione dei politici locali, e che la cosa si tramuti in uno sfruttamento bestiale – e legalissimo – per centinaia di persone costrette a mettersi «liberamente» sul mercato offrendo «liberamente» il proprio «libero» lavoro. Magari li obbliga la fame, ma queste sono variabili che escono dalle aree strettamente economiche, non è così?

 

Giustificazioni per lo sfruttamento dei poveri

Ma di quale economia? Quella di libero mercato, ovvio, perché invece quell’innominabile di Marx, che pure un po’ di economia l’aveva studiata, già 150 anni fa diceva che una moltitudine di contadini espulsi dalle campagne, vagabondi, mendicanti, disoccupati, disperati, insomma i poveri inglesi hanno contribuito in misura essenziale alla rivoluzione industriale. Ci vuole sempre un esercito industriale di riserva. I poveri e i disoccupati sono utilissimi nell’economia reale; per questo l’economia disciplina è chiamata a trovare giustificazioni eufemistiche per lo sfruttamento dei poveri. In certe formule economiche alcune variabili non sono nemmeno considerate: benessere dei lavoratori, salute dell’ambiente, ecc. Si chiamano non a caso «esternalità»: sono cose da non tenere in conto, da considerare fuori.

Caro mio, o questa è ideologia o io sono un complottista dietrologo: tertium non datur.

Anche il mercato finanziario è un mercato. Quindi è giusto rispettare i contratti, pagare i debiti, ecc. Ci mancherebbe. Ma non la farei così facile come la fai tu: «il tremendo giudizio dei mercati» – come ironizzi tu – non è «semplicemente la manifestazione di una volontà collettiva a vendere/comprare titoli di credito».

Dobbiamo considerare anche i rapporti di forza e consapevolezza in cui i liberi contratti sono siglati. Lo sappiamo tutti come è stato fatto il debito con i paesi ex coloniali. Lasciamo stare il caso italiano che è un problema autoctono. Conosci, ad esempio, il libro di John Perkins Confessioni di un sicario dell’economia? Perché chi li presta ha tanta voglia di prestarli i suoi soldi? Sull’altro versante: dal bancario o dall’usuraio si va liberamente a chiedere prestiti? Sicuramente dietro c’è un bisogno, se non un dramma. Chi ha bisogno è sempre debole, non dimentichiamolo.

Persino con gli investimenti «sicuri» in banca abbiamo visto succedere di tutto in questi anni.

Al di là dei fenomeni più o meno patologici, esiste sempre una sproporzione tra la conoscenza dell’offerente e l’ignoranza di chi riceve l’offerta. Sulla fiducia hanno imbrogliato un sacco di persone. Per quanto mi riguarda a molti di questi turlupinati la farei pagare veramente, col bail in. A me, che non capisco nulla di investimenti, lo hanno spiegato da piccolo, leggendomi Pinocchio, che i soldini non crescono nella terra e che se qualcuno ti promette miracoli devi stare molto attento. Se ci credi è perché ci vuoi credere, e se ti fidi: chi è causa del suo mal… Personalmente diffido di chi ti propone di arricchirti.

 

Questa minestra non si può mangiare

Concludendo questa lunga lettera riprendo la questione posta all’inizio.

Il vero discrimine, secondo me, sta nell’accettare o meno ciò che ci si presenta come una necessità inaggirabile. Nulla di ciò che è prodotto dall’uomo (anche leggi, norme, accordi, contratti, privilegi, ecc.) è una necessità inaggirabile. Le sedicenti scienze come l’economia pretendono di assumere le cose «così come esse sono», e questa magica formuletta implica non a caso il tatcheriano TINA (There is no alternative). Tradotto in italiano e enunciato prevalentemente con una certa qual soddisfazione: o mangiare questa minestra o…

Il mito realistico delle «cose così come esse sono» (a prescindere dal tempo e dalla storia) in filosofia si chiama materialismo, e non piaceva nemmeno a Marx. Esso dimentica che le cose umane sono come sono perché lo sono diventate e qualcuno le ha prodotte. La cosa è un prodotto, dunque ha dei produttori, dei padri e delle madri, e si trova in una fase di un processo, dunque avrebbe potuto essere anche diversa e diversa potrà essere in futuro.

Con altre chiavi di lettura, bibliche per esempio: produrre una cosa, mettersela davanti, darle valore, un valore incondizionato, al di là del tempo, assolutizzarla, farne un principio cui sottomettersi… tutta questa roba gli antichi ebrei la chiamavano idolatria.

Un caro abbraccio

Claudio Belloni

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