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politica
Società e stati senza libertà
Sono molti gli aspetti che distinguono le società con istituzioni democratiche rispetto a quelle che tali non sono. Mi limito ad esaminarne tre. |
Delatori
Il primo riguarda la libertà di esprimersi senza paura. Cioè la mancanza di delatori, professionali o occasionali, pronti a riferire le nostre parole o i nostri scritti, i nostri pareri e i nostri giudizi. Non è cosa da poco se si pensa alla Germania nazista dove i figli denunciavano alla Gestapo i padri, e viceversa. O se, come rivela Serena Vitale nella sua autobiografia A Mosca, a Mosca, nell’Unione Sovietica degli anni 70, pare che un cittadino su sei contribuisse alla “costruzione del socialismo” attraverso la delazione. E anche la più innocente delle festicciole casalinghe poteva finire il giorno dopo in un rapporto della polizia segreta con sede alla Lubianka. A giudicare dagli arresti di massa dopo le manifestazioni seguite alla guerra con l’Ucraina, nonché all’esilio di intellettuali e organi d’informazione, le cose in Russia non devono poi essere molto cambiate, con il «nuovo regime». Per tacere di quello che accadeva negli stati satelliti, in specie, nella Ddr il cui clima di «tutti che spiavano tutti» è stato ben illustrato in libri e film. È evidente che tale realtà, inibendo la fiducia reciproca, che è la prima condizione della convivenza, priva la società stessa di ogni evoluzione positiva, spegne ogni idea nel più banale conformismo e rende anche la vita più grama, immersa perennemente nel timore e nella paura.
Zdanov e accoliti
Il secondo è la libertà di espressione artistica. Arti figurative, letteratura e musica devono conformarsi a precise direttive politiche. Sorgono quindi tribunali, composti normalmente da mediocri funzionari, che giudicano e condannano. Ne sono testimonianza i roghi di libri e dell’arte “degenerata” del nazismo appena giunto al potere, intento a spegnere la grande fioritura della Repubblica di Weimar. Un periodo che va profondamente rivalutato (cfr. B. C. Hett, Morte della democrazia). In Unione Sovietica la ricerca di perfezione stilistica, unita al «pessimismo del mondo borghese» contrapposto all’“ottimismo rivoluzionario”, diedero corpo alle accuse di «formalismo» a D. Shostakovich e ad altri musicisti da parte di Zdanov e dei suoi accoliti. Seguì la condanna di scrittori come Solzenicyn, Pasternak, Shalamov e molti altri, colpevoli anch’essi di «atteggiamenti borghesi» e «controrivoluzionari». Il retorico riferimento al “realismo socialista” era obbligatorio per pittori e scultori. Sulla vicenda del Dottor Zivago è interessante ciò che riferisce Eliana Di Caro sul ruolo avuto da Rossana Rossanda. «Da dirigente del Pci aveva gestito l’affaire Feltrinelli / Pasternak. E quando le chiesi se non si fosse mai pentita di aver ostacolato la pubblicazione di Zivago per non urtare Mosca, si infiammo: “Pentirsi di cosa? Non era un libro molto interessante”» («Il Sole 24 ore», 27.9.2020). Certo, de mortuis nisi bene, ma con qualche riserva… Nina Berberova, biografa di Ciajkovskij e di Borodin, attinge molte informazioni dai volumi della Collezione Accademia e da altre opere dedicate al “gruppo dei Cinque” (musicisti amici di Borodin). Ci dà questa testimonianza: «La collezione Accademia è scomparsa nel 1937 … e i suoi creatori sono stati ridotti al silenzio. Gli uomini di cultura che avevano collaborato furono dispersi … alcuni furono liquidati» (Genio e regolatezza, p. 109). Terribile eufemismo che nasconde le fucilazioni nei sotterranei della Lubianka.
Anche il film Il concerto del regista rumeno (naturalizzato francese) Mihaileanu fa riferimento a questi temi, con l’aggiunta di un preoccupante ritorno dell’antisemitismo nell’Unione Sovietica ai tempi di Breznev. Un grande direttore d’orchestra viene licenziato e ridotto a fare le pulizie nel teatro dove dirigeva, altri musicisti sono spediti in Siberia. In sottofondo le note struggenti del concerto per violino e orchestra op. 35 di Ciajkovskij.
Di un episodio più lieve, ma grottesco, ancora una volta è stata vittima la slavista Serena Vitale ai tempi delle sue prime ricerche a Mosca. «Alla fine del primo bimestre dovetti presentare i risultati della mia attività al temutissimo professor Metchenco, ortodosso realsocialista esperto di Majakowskij, che aveva accolto con sarcastico sprezzo la notizia che studiavo la poesia di Andrej Belyj. Ero terrorizzata e lessi rapidamente le dieci pagine della ‘dissertàtzia’. “La compagna, anzi la signorina Vitale, potrebbe studiare con più profitto le canzoni italiane e non occuparsi di autori la cui opera trasuda pregiudizi ed errori di un passato che la nostra società si è per sempre lasciata alle spalle”, fu il lapidario giudizio del professore» (A Mosca, A Mosca!, pp. 36-37). Accolto dagli applausi degli astanti, in maggioranza vietnamiti, amici e compagni di mensa di Serena. Seguì un penoso dibattito a colpi di citazioni di Marx ed Engels e irrisioni varie all’indirizzo della relatrice. Si seppe poi che la claque vietnamita era sta appositamente ingaggiata e pagata (50 copechi a testa) per fare da megafono al professore e umiliare la candidata.
Una dolcissima emozione?
Il terzo aspetto riguarda il voto nelle elezioni. Quello previsto dall’art. 48 della Costituzione: personale e uguale, libero e segreto. Ed è anche un dovere civico, caso mai lo avessimo dimenticato. Non certi referendum che sono in realtà plebisciti, non le liste uniche o quelle sfacciatamente favorite (come si è visto di recente in Ungheria), non quelle viziate da trucchi e brogli di vario genere. Andremo a votare il 12 giugno, chi per il sindaco e il consiglio comunale, e tutti per alcuni referendum sull’ordinamento giudiziario. Complici le tragiche notizie sulla guerra e sulla persistente pandemia non ne parla nessuno. Ma l’importanza del voto in una società democratica ce lo ricorda un “certo” Giorgio Gaberscik, con Alessandro Luporini, in una canzone del 1976: «Generalmente mi ricordo/ una domenica di sole / … chissà perché non piove mai / quando ci sono le elezioni … Una curiosa sensazione … di cui non senti la paura / ma una dolcissima emozione / C’è un gran silenzio nel mio seggio / Un senso d’ordine e di pulizia/ Democrazia! … Mi danno in mano un paio di schede / e una bellissima matita/ lunga sottile marroncina, perfettamente temperata / Come son giuste le elezioni / E proprio vero che fa bene un po’ di partecipazione / Con cura piego le due schede / e guardo ancora la matita… Io quasi, quasi me la porto via/ Democrazia!».
Non credo di avere mai saltato un’elezione in vita mia, dai rappresentanti di classe dei miei figli alle elezioni europee, passando per decine di referendum. E nel ricordo di altre temperie storiche considero questa di Gaber, pur con un garbato velo ironico, una dichiarazione d’amore per la democrazia. Il 12 giugno sarà difficile provare quella dolcissima emozione di cui parla il poeta. Ma allora ricordiamoci che molti «morirono perché tu potessi vivere in libertà», come sta scritto nel granito di una lapide ai partigiani in Val di Susa. Era solo l’altro ieri, tra il 1943 e il 1945.
Gianrico Carofiglio, nel suo saggio più recente, ci mette in guardia contro l’usurpazione e il furto di parole come democrazia e libertà, «un fenomeno lento, progressivo e ricorrente» (La nuova manomissione delle parole, p. 39). L’impressione è che si stiano riducendo gli spazi dell’agire democratico tra gli Stati e nelle società all’interno degli Stati. In questo clima intossicato dalla guerra circola un’aria viziata da union sacrée, di falsa unanimità attorno ad un generico, vago e quanto mai discutibile interesse nazionale, in cui tutte le differenze scompaiono, e tutti i gatti sono grigi. Occorre reagire, al più presto, ma non si sa come.
Pier Luigi Quaregna
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