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società
Paura della paura Quest’ultimo esempio, riguardante la dipendenza da un “gioco”, mostra che è possibile «drogarsi» anche senza ingerire, annusare, iniettarsi «sostanze». Allora bisognerebbe analizzare (fuori e dentro di noi) molti esempi di «dipendenze di massa»: da un’attrazione erotica, dal fascino di una certezza assoluta, da un capo carismatico, da un bisogno artificiale, dall’idolatria del denaro, del successo, dal mito dell’eterna bellezza e gioventù… Ma si può parlare di «dipendenza» quando questa investe la maggioranza della popolazione? Si può parlare di «dipendenza» dal bisogno di fare come «tutti»? Sono domande appassionanti, che ci coinvolgono, che scavano nella nostra esistenza. Eppure… «Non sono competente… non ho tempo per approfondire… non posso diventare un esperto in ogni campo dello scibile!». Eppure… In altri campi non accampiamo simili scuse. Giustamente facciamo il possibile per diventare esperti in storia, filosofia, teologia, politica, diritto, economia, anche senza avere frequentato corsi e senza presentare certificati. Eppure… Chi sono mai gli «esperti»? Chi è mai colui che davvero riesce ad addentrarsi nel terreno minato della psiche umana? Spesso i «competenti» (anche quelli che ostentano sicurezza) procedono per tentativi, provando e riprovando, azzardando e scartando un’ipotesi dopo l’altra. Per scandagliare la psiche umana non occorrono solo libri e diplomi. Occorre soprattutto sensibilità, umile e paziente ricerca, amorevole compassione verso gli altri e coraggiosa introspezione. Ma allora… perché questo ritrarsi, questa improvvisa modestia, questa esibizione di ignoranza? Forse per paura, paura inconfessata. La pazzia dei «normali» Ma perché dovremmo avere paura di quello che riguarda la profondità del nostro essere? Forse abbiamo paura di quello che non si presenta né si presenterà come possibile oggetto di analisi razionale, probabilmente neppure tra diecimila anni. L’intellettuale, l’intellettuale puro, prova un’enorme difficoltà nell’ammettere limiti invalicabili, nel confessare la propria impotenza. In questo campo, e chissà perché solo in questo campo, preferiamo barricarci dietro alla nostra incompetenza. Preferiamo persino apparire pigri piuttosto che ammettere di essere in realtà solo dei paurosi. Se facciamo parte di quella che Fromm chiama «società pazza», cioè di una società in cui molti inseguono miti deliranti, siamo tentati di essere rassicurati dal generale consenso: «Tutti pensano, dicono, fanno così». Se invece cercassimo di liberarci dalla patologia di massa, saremmo giudicati pazzi dai veri pazzi, come accade spesso sotto le dittature. Solo sotto una dittatura? Non esistono in ogni società pazzie collettive più sottili e solo apparentemente più innocue? La paura nasce dalla sensazione, sempre rimossa, che ognuno di noi nasconda nel suo profondo degli aspetti oscuri. Vorremmo invece essere perfetti come delle macchine in cui, semplicemente digitando, apparisse un’idea chiara e distinta con una coerente linea di condotta. La “pazzia” più insidiosa è l’idolatria della certezza, del rassicurante, della «normalità». Meno male che siamo tutti un po’ insicuri, un po’anormali! La nostra «anormalità» ci mette in comunione con l’umanità intera. L’onesto riconoscimento della presenza in noi di punti oscuri, anche se non ci porta alla loro eliminazione, ci permette di convivere più serenamente con questa parte (un po’ scomoda) di noi stessi. La pazzia dei «pazzi» Ma se tutti siamo «anormali» e soffriamo di problemi psichici, non possiamo negare che una parte non trascurabile della popolazione (5-10%?) è tormentata da disturbi nettamente più acuti. Sono patologie che possiamo definire gravi in quanto generano forti sofferenze e possono indurre ad atti distruttivi e autodistruttivi. Il sistema sanitario spesso non è preparato a fare fronte a tali malattie. E la mentalità della «gente normale» ancora meno. È impossibile descrivere il mondo dei malati di mente. Sono gli ultimi tra gli ultimi, persone private, in tutto o in parte, di volontà, di dignità, di personalità, di libertà. Ci sono persone (2 milioni?) che, dalla gioventù alla vecchiaia, vivono in uno stato di grave depressione. È bloccata la capacità di volere, di darsi degli obiettivi: compiono un grande sforzo persino nell’alzarsi dal letto. Alcuni farmaci consentono un certo miglioramento. Occorre tuttavia far presente che la depressione può essere inibitoria e, quando la terapia comincia a funzionare, scatta la disinibizione e cresce il rischio di atti distruttivi. Il paziente tenta il suicidio quando comincia a migliorare! Problemi simili si presentano per gli schizofrenici (un milione?). Nulla è scontato. A volte è pericoloso toccare certi deliri: sono voci amiche, che fanno compagnia. Lo scopo dell’operatore sanitario è l’attenuazione della sofferenza, non la “guarigione”. Se il paziente è ricoverato in una struttura e viene dimesso, il rischio del suicidio è elevato subito dopo le dimissioni. In caso di atti autodistruttivi, i medici che ne hanno consentito l’uscita rischiano l’accusa di imperizia, o addirittura di omicidio colposo. D’altra parte impedire le dimissioni può comportare l’accusa di sequestro di persona. Le implicazioni legali favoriscono la diffusione di una medicina “difensiva”, con l’uso eccessivo di sedativi. In tal modo si protegge la società dal malato e i medici da denunce. Ma questo serve ad attenuare la sofferenza e la disumanizzazione dei pazienti? Possiamo inoltre notare che la linea di separazione tra malattia e salute mentale appare molto incerta e relativa. Nell’ampia zona di confine abbiamo un notevole numero di persone che, anche se non rientrano nei casi ufficialmente patologici, presentano disturbi tali da costituire un serio ostacolo nella loro vita affettiva, lavorativa, in genere nella capacità di comunicare e socializzare. La lucida autocoscienza della propria diversità ed emarginazione rende la loro vita particolarmente difficile e dolorosa. Cultura, etica, politica L’esplorazione del mondo delle malattie mentali, della pazzia dei normali e della pazzia dei pazzi, ci consente di addentrarci in un terreno ricco di sorprese e di stimoli, aperto alla ricerca di filoni sempre nuovi. Domande inquietanti e affascinanti si impongono. Sono domande che anche in passato hanno accompagnato la storia dell’umanità, ma che possono essere viste in una prospettiva sempre nuova. Che cos’è la salute? E la malattia? Che cos’è la guarigione? Che cos’è la libertà? Ci può essere una contraddizione tra l’autentico benessere della maggioranza e quello di una minoranza di sfortunati? Il nostro dovere è quello di rendere gli altri e noi stessi più liberi o più felici? Che significa in concreto “umanizzare” l’umanità? L’umanizzazione passa necessariamente attraverso il dolore, il sacrificio, il rischio mortale? O è possibile “umanizzare” allentando contemporaneamente le sofferenze? Immenso e appassionante è in particolare il compito degli intellettuali. Lungi dall’aver paura dei “pazzi”, siamo invece chiamati a raccogliere la loro sfida, anche perché questa sfida nasce dalla pazzia nascosta in ognuno di noi. Se intendiamo dare alla nostra vita un senso morale, dobbiamo essere particolarmente vicini a coloro che, in modo più o meno grave, sono disturbati mentalmente. Sono i poveri più poveri, sono gli afflitti più afflitti, sono perseguitati e malvisti dalla gente perbene. Sono la pietra scartata da tutti! Soprattutto occorre usare estrema cautela nel giudicarli. Forse quelli che danno prova di virtù eroiche, quelli che dovremmo chiamare santi per davvero, sono coloro che devono ogni giorno lottare contro la dipendenza da droghe di ogni tipo, contro la mancanza di voglia di vivere, contro il desiderio di distruggere e di autodistruggersi. E forse il “virtuoso”, chi è sempre generoso e sereno, è un privilegiato senza meriti che ha avuto il dono di essere mosso da forti energie positive. Non dimentichiamo infine che, mentre altre categorie di oppressi e sfruttati hanno la possibilità (almeno teorica) di organizzarsi e lottare per i loro diritti, per i malati psichici una tale possibilità risulta al di fuori di ogni immaginazione. Chi in qualche modo si ritiene “di sinistra”, chi si ispira alle lotte che da secoli hanno segnato un sia pur lento e contraddittorio progresso sociale, dovrebbe fare il possibile per dar voce alle numerosissime vittime delle malattie mentali e dei pregiudizi che ne aggravano le sofferenze. Se il nostro fine, come dice don Milani, è amare il prossimo anche attraverso la politica, il sindacato e la scuola, dobbiamo agire anche politicamente affinché il dettato costituzionale dell’eguaglianza, senza alcuna distinzione, si riempia di nuovi contenuti. La politica deve sicuramente promuovere una sanità e un’assistenza che vengano incontro ai bisogni dei malati di mente. Ma il compito non riguarda solo coloro che sono affetti da patologie “riconosciute”. Una politica che volesse veramente essere erede della migliore tradizione cristiana e socialista dovrebbe divulgare, attraverso la scuola e i media, una cultura controcorrente rispetto a quella dominata dall’ossessione del merito, della prestazione, della competitività, della crescita a tutti i costi. L’uguaglianza è un progetto globale, che richiede tempi molto lunghi. Ma è un sogno irrealizzabile pensare di poter costruire una società in cui non ci siano più svantaggiati? Dario Oitana
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