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società
La frase sta scritta su una tavoletta di legno, accanto all’ingresso del cascinale in cui Arianna si è trasferita dopo la morte prematura del marito. È tornata alle origini nella sua campagna marchigiana, tra le colline dei girasoli. Coltiva l’orto e ospita volentieri amiche o ex colleghi, come me. Ma la sua compagnia quotidiana sono un cane, due gatti e un asinello lasciatole da un vicino che doveva disfarsene. «Fanno parte della schiera dei miei maestri», mi dice mentre ci accomodiamo sulla panca che si affaccia sulla piana sottostante. «Non ti pare di esagerare? ‒ obietto. So che alla Cattolica hai avuto ben altri docenti». La sua sonora risata mi pare approvi o almeno apprezzi la battuta. Mi addita in lontananza le alture di Urbino. Poi torna sull’argomento. «Sai bene, Luca, c’è un tempo per tutto. Un tempo per i classici e uno per le bestie. Persino dagli alberi abbiamo da imparare. Forse anche dalle pietre. Figuriamoci da Fido, o da Giotto e Dalì, o da Spillo, che sono mammiferi come noi e ci accompagnano da migliaia di anni». Un’osservazione mi sorge immediata. «A proposito di classici però: fatti non foste a viver come bruti… Il tuo amato Dante riserva la canoscenza alla nostra semenza, cioè all’umanità». Mi indica una stradina sterrata che costeggia un uliveto poco lontano sino a un viale di tigli. «Più tardi, faremo una passeggiata con Fido, che si fermerà mille volte a fiutare ogni erba e ogni orma. Di queste terre conosce molte cose che io e te ignoriamo». Quasi gli fossero fischiate le orecchie, l’animale si riscuote dal sonno, si solleva stiracchiandosi e si volge verso di noi con un mugolio. «Ciò che anche nei mici mi stupisce – continua Arianna ‒ è la curiosità con cui esplorano e osservano. Come ci fosse un’oscura aspirazione a scoprire il mondo. Una tensione, uno sforzo teso verso l’indagine. Forse persino verso la consapevolezza». Rimango perplesso. Tento di metterla sullo scherzo con una citazione. «Avranno letto Allen Ginsberg, il guru della beat generation, che ai bei tempi non mancava nelle nostre biblioteche. Dilatare l’area della coscienza – ricordi? – era il suo motto». Veniamo interrotti dall’arrivo di due bambini dei dintorni, che appoggiano le loro biciclette alla staccionata urlando «Spillo!». L’asino, intento a brucare, solleva la testa, poi muove un passo con fare impacciato. Ma già Piero e Paolo – così li chiama Arianna, accogliendoli - gli stanno attorno e carezzano la grigia criniera. «Tu parli di coscienza – riprende ‒ e non c’è niente da ridere. Anche in noi la coscienza si è fatta strada in centinaia di millenni. Non possiamo prevedere la futura evoluzione delle specie. Ma non possiamo ignorare che un barlume di coscienza è percepibile già oggi in molti animali, specialmente se sai stabilire una relazione con loro». Mentre guardiamo Spillo – che si lascia di buon grado imboccare, con piccoli ciuffi d’erba, dagli esuberanti marmocchi – ripenso alle stagioni in cui con Arianna frequentavo la comunità di base di Porta Romana. Facevamo parte (così si diceva) del “dissenso”. In effetti un po’ borderline lo eravamo. Le eucarestie autogestite dai laici, ad esempio... E da parte di lei e delle sue amiche l’apertura di discorsi sorprendenti. Sul corpo, e sul piacere, e sulle diversità. Io poi sono rientrato nei ranghi, più o meno. Lei no, ha vagabondato mentalmente e fisicamente – sin nell’ashram di Pondicherry – mantenendosi col suo talento di fumettista. Anche a me, certi suoi graphic novel sono piaciuti. «Forse tutto è comunione e gratitudine», dice a un tratto, mordicchiandosi il pollice. Ecco un vizio che le è rimasto e che non mi dispiace. Le restituisce un tratto di adolescenziale insicurezza. Come se negli occhi le si disegnasse un punto interrogativo. Provo a riprendere il filo delle sue argomentazioni. «Della coscienza degli animali non so. Probabilmente i filosofi ‒ Aristotele, Tommaso, Cartesio ‒ ne hanno parlato con molta presunzione… Ma mi preoccupa di più lo squilibrio prodotto ultimamente dalla nostra specie. L’estensione gigantesca degli allevamenti intensivi e delle colture che li alimentano. O la scomparsa degli habitat naturali, la foresta innanzitutto, e il calo della biodiversità». «Credo – osserva - che tutto si leghi. Quella che chiami presunzione è divenuto un delirio di onnipotenza. La tracotanza dell’antropocene. Che nasce ancora una volta dal non riconoscere l’altro. O meglio: non saper più vedere, o non voler vedere, il simile nel dissimile. Anche negli animali non umani, o nelle piante». Già i bambini risalgono sulle bici e si allontanano facendo a gara a superarsi. L’asino li segue con lo sguardo, i grandi occhi pacati, e pietosi. Sembra scuotere un poco la testa. Arianna ora sorride, mentre mi offre le sue marmellate. «Ogni mattina – mi confida – me ne sto un po’ qui fuori. Qualche esercizio yoga, il saluto al sole che sorge. Nell’alba c’è il nostro Natale. E nel mio respiro c’è il loro…e nel loro il mio». Sulla panchetta accanto alla nostra, il gatto bianco continua a leccarsi, dedicandosi a una meticolosa pulizia. Il suo fratellino, smilzo e tigrato, ogni tanto riemerge dal sonno. Socchiude gli occhi, poi torna ad aggomitolarsi beato. Quelle immagini e quelle parole mi tornano in mente la sera sulla strada verso casa, immerso nella lettura di una pagina di Dostojevskij: «Dio ha dato loro un principio di pensiero e una gioia senza inquietudine. Non li turbate, non li tormentate, non togliete loro la gioia, non andate contro l’intenzione di Dio. Uomo, non ti esaltare al di sopra degli animali» (Dostojevskij, Fratelli Karamazov, Rizzoli 1988, pp. 427-28). Getto un’occhiata dal finestrino del Flixbus. In alto, nell’aria settembrina, sulla distesa azzurra che già si abbruna, intravvedo cinque anatre, in volo verso sud… Giovanni Pagliero
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